Più passano i giorni, più pare che già circolassero rumors sulla «marcia» di Prigožin che ha tenuto il mondo col fiato sospeso. Un sospetto che qualcosa si stesse muovendo sotto la cenere già sembrava emergere da una quanto meno strana dichiarazione di Benjamin Netanyahu, appena precedente agli eventi di sabato scorso.

Il primo ministro israeliano aveva invitato gli alleati occidentali ad essere prudenti nel rifornire armamenti all’Ucraina perché alcune di queste armi erano comparse ai confini israeliani in mani nemiche. Dichiarazione tanto più strana perché ha il sapore di un dito negli occhi al presidente Biden, mentre diversi “pontieri” preparano l’agognato viaggio del premier israeliano a Washington, ancora assente dal momento del suo insediamento a fine dicembre 2022.

A rileggerla oggi, sembra un invito a meditare sul rischio di una destabilizzazione della confederazione russa. Non ci sono conferme che Netanyahu fosse cosciente che qualcosa si stesse muovendo a Mosca, ma non stupirebbe che ne fosse in qualche modo informato, vista la proverbiale efficienza dell’intelligence israeliana e il legame che lo stato ebraico ha con l’area coinvolta nel conflitto, con un milione di russi e 250.000 ucraini sul proprio territorio e i forti legami costruiti negli anni con lo stesso Vladimir Putin, la cui leadership si è spesso rivelata funzionale agli interessi geostrategici dello Stato ebraico.

Diversi i piani in cui il Cremlino si è dimostrato garante degli interessi israeliani. Anzitutto la Siria, dove Mosca ha consentito i raid israeliani per colpire postazioni missilistiche direttamente, o indirettamente, di emanazione iraniana.

Il secondo è di natura, diciamo, culturale: dopo il periodo comunista, Putin ha valorizzato la presenza ebraica sul territorio russo, presentandola al contempo come componente e legittimazione della propria cultura imperiale, essendo pienamente cosciente di cosa possa significare per l’opinione pubblica internazionale. In particolar modo occidentale.

Infine, una Russia solida si è dimostrata garante di una qualche forma di stabilità in un’area piombata, negli ultimi venti anni, nel disfacimento, col collasso di interi Stati. Un ruolo giocato a maggior ragione dopo la crisi USA, che, fra guerre, ritiri sconsiderati, patti firmati e poi ritirati ha dimostrato una totale assenza strategica in Medio Oriente, anche condizionata dalle proprie lotte intestine.

Le frizioni

Durante questo anno e mezzo di guerra non sono mancati i momenti di frizione fra Mosca e Gerusalemme. In primis, il rinvigorito legame fra Russia-Iran, con patti commerciali di portata mastodontica e scambi di armamenti. Come noto i droni iraniani in dotazione russa si sono dimostrati assai utili nello scenario ucraino. Poi la stretta sull’Agenzia ebraica, che, come tutte le agenzie straniere, ha visto limitata la portata della propria azione.

A questo si aggiungono la rocambolesca fuga del rabbino capo di Mosca in Israele, da dove non ha smesso di denunciare rigurgiti antisemiti nella confederazione, e le gaffe diplomatiche tra cui spicca quella di un solitamente prudente Lavrov sulle origini ebraiche di Hitler, con cui si voleva dimostrare l’antisemitismo di Zelensky (!).

Dichiarazione compiuta in un’emittente italiana di Silvio Berlusconi, lo stesso uomo del quale veniva commemorata la morte sulle reti russe, con un documentario, durante la marcia di Prigožin. Nonostante ciò, e con l’aggiunta di un’opinione pubblica favorevole alla causa ucraina, gli apparati israeliani, non solo Netanyahu, temono un’implosione della confederazione.

Anche qui i pericoli sono ben circoscritti: da un lato il timore che anche una sola mini-bomba dell’immenso arsenale nucleare russo possa cadere nelle mani di un qualche gruppo terroristico. In secondo luogo, come sottolineato dal corrispondente per gli affari militari e l’intelligence del Jerusalem Post Yonah Jeremy Bob, ad Israele la frattura fra Occidente e Russia è funzionale allo stallo di un qualunque accordo sul nucleare iraniano, su cui anche Cremlino ha parola. Insomma, al netto di considerazioni politiche o ideologiche, anche da Israele sembra alzarsi una voce: se cade Putin, chi al suo posto?

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