La telefonata che mercoledì sera Xi Jinping ha finalmente concesso (Kiev la chiedeva da mesi) a Volodymyr Zelensky posiziona la Cina come unico grande paese sceso in campo finora per favorire una trattativa con Mosca sulla base di un documento ufficiale, i 12 punti della “Posizione della Cina sulla soluzione politica della crisi ucraina” pubblicati il 24 febbraio scorso dal ministero degli esteri di Pechino. 

Dopo aver parlato, per la prima volta dall’inizio della guerra, col suo omologo cinese, Zelensky ha sostenuto che si è presentata «un’opportunità per utilizzare il potere politico della Cina per rafforzare i princìpi e le regole sulle quali si dovrebbe costruire la pace». «L’Ucraina e la Cina sono ugualmente interessate alla sovranità e all’integrità territoriale», ha aggiunto il presidente ucraino.

La Repubblica popolare cinese rivendica Taiwan come una sua provincia (Zelensky ha ricordato che Kiev sostiene il principio “Una sola Cina”) e dà battaglia al separatismo nelle regioni del Tibet e del Xinjiang. Ma è chiaro che come intenda far rispettare la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina (dove la Russia si è annessa la penisola della Crimea nel 2014 e, l’anno scorso, le quattro regioni orientali di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia) si potrà capire solo nel corso di un’eventuale trattativa.

Mosca “prende atto”

Intanto Mosca si è limitata a “prendere atto” (che nel gergo diplomatico significa quasi manifestare disappunto) della telefonata tra Xi e Zelensky. A conferma di quanto la strada sia in salita, la portavoce del ministero degli esteri, Maria Zakharova, ha dichiarato che «è improbabile che eventuali iniziative per la pace vengano adeguatamente accolte da fantocci controllati da Washington».

Tuttavia Putin ha le mani legate: a causa della sua guerra d’aggressione l’economia russa è arrivata a dipendere dalle esportazioni in Cina (15,5 miliardi di metri cubi di gas nel 2022 e, nello stesso anno, 1,7 milioni di barili di petrolio al giorno) dei suoi idrocarburi che l’Europa non vuole più; e solo la quasi-alleanza con Pechino permette al suo governo di non finire isolato come quello nordcoreano. Una subalternità che già il 15 settembre scorso, incontrando Xi in Uzbekistan, spinse Putin a dichiarare, a favore di telecamera: «Apprezziamo molto la posizione equilibrata dei nostri amici cinesi riguardo alla crisi ucraina. Comprendiamo le vostre domande e preoccupazioni e, ovviamente, chiariremo tutto in dettaglio» e che l’altro ieri l’ha costretto a ingoiare il boccone amaro del lancio ufficiale del tentativo di mediazione cinese.

La mossa di Pechino è stata preparata dagli incontri che a febbraio Wang Yi (il responsabile della politica estera del partito comunista) ha avuto con i leader europei a Monaco e poi a Mosca con Putin, dal faccia a faccia a Mosca (dal 20 al 22 marzo) tra lo stesso presidente russo e Xi, e dalla recente visita di Emmanuel Macron in Cina. Per la sua mediazione Pechino ha nominato come inviato speciale per l’Ucraina un diplomatico navigato, il settantenne vice ministro degli esteri ed ex ambasciatore a Mosca Li Hui, un fedelissimo di Xi che ha consuetudine con Putin.

La scelta del momento

In Occidente la “neutralità filo-russa” mantenuta da Pechino per un anno è stata criticata come “ambigua”. In realtà la leadership cinese ha atteso il momento giusto per scendere in campo e - secondo il modus operandi della sua diplomazia - cogliere le opportunità che sempre si presentano assieme a una crisi, in questo caso la guerra d’aggressione scatenata dal suo quasi-alleato.

La mossa di Xi è stata ben accolta anzitutto da Kiev. Infatti, se l’annunciata controffensiva ucraina riconquisterà territorio, questa riappropriazione andrà “consolidata” attraverso un negoziato. Se, al contrario, il contrattacco andrà male, gli ucraini avranno altrettanto bisogno di una tregua, per riorganizzarsi.

Provati dall’assistenza fin qui fornita all’Ucraina (oltre 46 miliardi di dollari in aiuti militari e 26 miliardi di sostegno finanziario) e dubbiosi sul protrarsi di un conflitto che li distrae dal loro avversario principale (la Cina), anche gli Stati Uniti sembrano favorevoli a una pausa. L’amministrazione Biden ha commentato la chiamata Xi-Zelensky come “una buona cosa”. Ed è apparsa un po’ spiazzata. «Se farà fare dei passi significativi verso la pace, se ci sarà un piano, un proposta: non lo sappiamo in questo momento», ha dichiarato il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale, John Kirby.

Mossa strategica

L’attesa telefonata tra i due leader è arrivata inoltre mentre le opinioni pubbliche, a partire da quella Usa, manifestano una crescente stanchezza per il conflitto e le aziende europee (in prima linea quelle italiane, che il 26 aprile hanno dato vita a Roma a una conferenza ad hoc) sono pronte ad accaparrarsi una fetta del business della ricostruzione dell’Ucraina.

Può apparire paradossale, ma è proprio la “neutralità” sempre ostentata (e “certificata” dalla tardiva telefonata di Xi a Zelensky) che ha permesso a Pechino di imporsi come il mediatore potenzialmente più efficace tra russi e ucraini. Per esercitare la maggior leva possibile nei confronti del suo quasi-alleato e di un paese amico (l’Ucraina) per il quale rappresenta un indispensabile partner commerciale, la Cina si è proclamata “neutrale”, senza mai condannare l’aggressione russa e spesso ricordando le “preoccupazioni di sicurezza” di Mosca, in polemica contro la Nato e gli Stati Uniti.

E il fatto che Xi in persona ci abbia messo la faccia (che per la cultura cinese implica il rischio di perderla irrimediabilmente) evidenzia l’importanza che la leadership del partito comunista attribuisce alla sua mossa. La Cina vuole fermare la guerra, perché danneggia i suoi interessi, peggiorando le sue relazioni con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, e deprimendo il commercio internazionale. Ma, soprattutto, dopo aver sponsorizzato la riconciliazione tra sauditi e iraniani, un cessate il fuoco e un dialogo tra Kiev e Mosca sarebbe un grosso punto a favore della nuova governance globale promossa da Pechino che scommette sulla fine dell’egemonia statunitense.

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