«Non abbiamo ancora superato la crisi finanziaria, operiamo con una logica “di sopravvivenza mese per mese”, il che è molto difficile per noi», racconta la direttrice comunicazione dell’Unrwa. «Le bugie e la disinformazione hanno messo a rischio i miei colleghi sul campo»
«Non c’è dubbio che le accuse e l’etichettatura che abbiamo subìto abbiano danneggiato l’agenzia. Siamo stati vittime di propaganda — che nel nostro settore si chiama “disinformazione” — ma questa campagna contro di noi ha avuto effetti pesanti». Dal quartier generale della Fao a Roma, Juliette Touma, direttrice della comunicazione dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), racconta senza mezzi termini le difficoltà incontrate nell’ultimo anno e la drammatica situazione umanitaria nella Striscia. «Siamo stati etichettati come “terroristi” o “amici dei terroristi”. Fa parte di una spaventosa campagna di disumanizzazione del popolo di Gaza — o, più in generale, del popolo palestinese. Si è cercato di far passare l’idea che “Gaza è Hamas, Hamas è Gaza; l’Unrwa è Hamas, Hamas è l’Unrwa”», aggiunge. Ma non è così. E lo dimostra anche la ripresa dei finanziamenti verso l’Agenzia da parte di alcuni stati che inizialmente li avevano congelati.
Da due mesi non entra più cibo nella Striscia, qual è la situazione umanitaria oggi alla luce dei nuovi piani annunciati dal premier Netanyahu?
Non manca solo il cibo. Mancano i prodotti per l’igiene, l’acqua potabile, il carburante. Oltre ai prodotti per l’igiene femminile, i vaccini per i bambini, i medicinali per i malati e le forniture di base per gli ospedali. Stiamo parlando di tutto l’insieme dei beni essenziali e delle forniture di base per qualsiasi essere umano nel mondo. Non riduciamolo solo al cibo. È in corso un assedio non è un semplice blocco degli aiuti umanitari, legalmente c’è differenza tra i due. Già prima del 7 ottobre 2023 Gaza era sottoposta a un blocco. Ora assistiamo a un assedio perché non entra nulla e a nessuno è permesso di uscirne.
Che tipo di assistenza siete riusciti a fornire finora?
Durante la tregua l’Onu è riuscita a fare entrare 600 camion al giorno nella Striscia. A differenza di quanto detto dai ministri israeliani, non erano solo camion di cibo. Portavamo anche beni essenziali. Stimiamo che oltre 2 milioni di persone dipendano dall’assistenza umanitaria per il semplice motivo che quasi tutti a Gaza sono stati costretti a lasciare le proprie case o i propri rifugi più volte. In media questo accade una volta al mese. Immagina di vivere in una città e all’improvviso devi andartene senza portarti nulla con te perché devi camminare per chilometri fino a raggiungere un posto più sicuro. E a Gaza nessun posto è sicuro. Forniamo anche assistenza sanitaria e istruzione non solo nella Striscia ma pure in Cisgiordania.
Attività essenziali che il parlamento israeliano ha cercato di limitare anche attraverso due leggi. Come è cambiato il vostro lavoro da quel momento?
L’idea era anche quella di designare l’Unrwa come un’organizzazione terroristica, ma alla fine non è stata ufficialmente approvata dal parlamento israeliano. A fine ottobre 2024 la Knesset ha approvato due leggi, entrate in vigore nel gennaio del 2025. Stabiliscono che l’Unrwa non può lavorare in quello che Israele definisce come suo territorio e ai funzionari israeliani è vietato comunicare con l’agenzia. In termini pratici significa che tutto il nostro personale internazionale non può accedere ai territori palestinesi occupati perché non riceviamo visti dal governo israeliano. Abbiamo degli straordinari palestinesi sul campo: ci sono gli insegnanti in Cisgiordania, i medici a Gaza, gli autisti dei camion che consegnano i rifornimenti. Sono fantastici e davvero impegnati nei loro principi umanitari — 17.000 di loro lavorano dove nessun altro vuole lavorare e godono della fiducia delle comunità. Ma senza visti non riusciamo a coordinare il lavoro come prima. Non siamo più invitati alle riunioni dall’esercito israeliano o del governo. Non rispondono alle telefonate e alle richieste di incontro. Scriviamo loro continuamente perché protestiamo su molte questioni che accadono, ad esempio gli attacchi contro le nostre strutture a Gaza, l’uccisione del nostro personale. C’è anche un alto livello di molestie da parte della polizia, dell’esercito e delle autorità israeliane nelle scuole e nei servizi che gestiamo a Gerusalemme Est.
Eppure non è la prima volta che si tenta di limitare il vostro operato
Non c’è dubbio che ci siano stati diversi tentativi, nel corso degli anni, di smantellare l’agenzia, di “cancellarla” — per usare un termine attuale — e questo nasce da una visione miope: l’idea che cancellando l’Unrwa si cancelli lo status dei rifugiati o si elimini il diritto al ritorno. Noi non abbiamo alcun mandato per le “soluzioni durevoli”: ci occupiamo di fornire servizi ai rifugiati, principalmente istruzione e sanità. L’assistenza umanitaria si è aggiunta in seguito, a causa dei molti conflitti che l’agenzia ha attraversato — dal Libano alla Siria, dalla Cisgiordania a Gaza. Questo è il nostro mandato. Pensare che cancellare l’Unrwa cancelli i diritti o lo status dei rifugiati palestinesi significherebbe condannare le persone a sofferenze del tutto inutili.
Il governo israeliano ha accusato alcuni vostri dipendenti di far parte di Hamas e di aver partecipato agli attacchi del 7 ottobre
Le accuse formali sono arrivate nel gennaio 2024, durante un incontro tra i rappresentanti Onu e un rappresentante del ministero degli Esteri israeliano. In quell’occasione ci sono stati comunicati i nomi di 12 membri del personale dell’Unrwa accusati di aver partecipato all’attacco del 7 ottobre. Siamo rimasti inorriditi da queste accuse. Abbiamo verificato che quei 12 nomi corrispondessero a membri del nostro personale, dopodiché il Commissario Generale dell’Unrwa ha deciso di rescindere i loro contratti, anche se non c’erano prove, con la consapevolezza che avrebbero potuto fare ricorso. Inoltre, è stata aperta un’inchiesta attraverso il Segretario Generale, tramite l’organismo investigativo più alto delle Nazioni unite. L’inchiesta è durata da fine gennaio a fine luglio. I risultati sono pubblici: in un caso non è stata trovata alcuna prova; mentre in nove casi, le prove erano insufficienti per supportare le accuse di coinvolgimento. In altri nove casi, l’indagine ha concluso che se le informazioni fornite fossero state confermate o verificate allora ci sarebbe potuta essere una possibilità di coinvolgimento negli eventi del 7 ottobre. Ma anche in questo caso, quei dipendenti sono stati licenziati. Per noi la priorità assoluta è che non ci siano interruzioni nell’assistenza umanitaria e nei servizi che offriamo.
Tutto ciò ha avuto delle ricadute anche sui finanziamenti che ricevete
In 48 ore abbiamo scoperto che 16 paesi hanno sospeso i fondi. Dall’aprile dell’anno scorso tutti hanno ripreso i finanziamenti tranne gli Stati Uniti né sotto l’amministrazione Biden, né con Trump. Però Trump ha firmato un ordine esecutivo che vieta ogni finanziamento a Unrwa. Tuttavia, abbiamo ricevuto un enorme sostegno dai privati cittadini in tutto il mondo, che hanno donato oltre 200 milioni di dollari dall’inizio della guerra. Altri paesi, invece, hanno deciso di raddoppiare o triplicare i loro contributi. Non abbiamo ancora superato la crisi finanziaria, operiamo con una logica “di sopravvivenza mese per mese”, il che è molto difficile per noi. Non abbiamo alcuna certezza su quali fondi avremo l’anno prossimo, o persino fra pochi mesi. È una situazione estremamente critica.
Che impatto ha avuto, invece, sul vostro personale?
Le bugie e la disinformazione hanno messo a rischio i miei colleghi sul campo. Tante delle nostre strutture erano state trasformate in rifugi e sono state colpite più volte, membri del personale sono stati arrestati. Ora qualunque nostro operatore è un bersaglio: da uccidere, ferire o arrestare. E quei membri del personale che sono stati arrestati e poi rilasciati ci hanno raccontato di aver ricevuto trattamenti molto duri mentre erano nei centri di detenzione. Ci hanno riferito di essere stati privati del cibo, del sonno, aggrediti da cani, minacciati di morte. In alcuni casi, hanno subito anche il waterboarding, sono stati denudati, obbligati a firmare documenti in lingue che non capivano. Abbiamo membri del personale tuttora detenuti. La maggioranza di chi è stato rilasciato è tornato subito al lavoro, perché per loro il lavoro è un modo per distrarsi dagli orrori vissuti e servire la propria comunità.
Attualmente si stanno discutendo diverse proposte per consegnare aiuti a Gaza, bypassando le Nazioni unite. Secondo i media israeliani si pensa anche all’uso di contractor privati americani
La guerra va avanti da oltre un anno e mezzo. C’è già un sistema in funzione: c’è una grande comunità umanitaria a Gaza, guidata dalle Nazioni unite, che sta fornendo assistenza. Abbiamo le competenze tecniche, l’esperienza e sappiamo come fare. Non c’è bisogno di duplicare o sostituire il sistema. Gli aiuti aerei, purtroppo, hanno causato vittime: alcune persone sono morte annegate cercando di recuperare il cibo in mare. Durante l’assedio siamo riusciti a far entrare 600-700 camion e a distribuire gli aiuti. L’accusa che gli aiuti sarebbero finiti in mano sbagliate non è fondata perché abbiamo sistemi di controllo, sappiamo dove va ogni cosa, chi distribuisce cosa. E se riceviamo segnalazioni di deviazioni, le indaghiamo. Quello che sta succedendo ora è una punizione collettiva contro due milioni di persone di cui la metà sono bambini.
Cosa serve ora per salvaguardare l’esistenza dell’Unrwa?
La questione è più grande dell’Unrwa, riguarda le Nazioni unite nel loro insieme. Riguarda i nostri valori umani, i principi globali, il vivere in un mondo migliore, il fornire aiuto dove ce n’è più bisogno. Riguarda salvare la nostra umanità. Ecco di cosa si tratta. È un momento di verità. Credo che la guerra a Gaza e il 7 ottobre abbiano cambiato il mondo come lo conoscevamo. La polarizzazione che ne è seguita è enorme, gigantesca. Bisogna avere empatia o compassione per le famiglie degli ostaggi israeliani che hanno attraversato l’inferno, con pochissimo sostegno dal loro stesso governo per ottenere la liberazione dei loro cari. E allo stesso tempo, empatia e compassione anche per le tantissime persone che stanno vivendo orrori. Nessuna parola può rendere davvero giustizia al popolo di Gaza. Io sono stata lì durante la guerra: è qualcosa che non mi lascerà mai, anche se negli ultimi 20 anni ho seguito diversi conflitti, Gaza è diversa. E tutto questo deve finire. Se vogliamo salvare quel che resta della nostra umanità, deve finire.
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