«Se si taglia un grande albero, questo proverà a rafforzare le sue radici per sopravvivere. Se lo si pota, cercherà di creare nuovi rami. A Gaza la gente torna alle proprie radici», dice Samah Jabr. Per nove anni è stata a capo della Unità salute mentale del ministero della Salute dell’Anp. Insieme a decine di colleghi ha lavorato per garantire accesso alla salute mentale per migliaia di palestinesi nella Striscia
Per oltre un anno, fino alla firma della tregua tra Hamas e Israele, le immagini che provenivano dalla Striscia di Gaza erano sempre le stesse: i palazzi sventrati dalle bombe, le corse dei soccorritori per trasportare i feriti in ospedale, la disperazione di madri, padri e figli sopra i sacchi di plastica che contenevano i corpi dei loro cari.
Le immagini della distruzione circolate online hanno fatto conoscere al mondo l’impatto fisico della guerra. Si sa, per esempio, che per ricostruire Gaza ci vorranno circa 40 miliardi di dollari o che per ripulirla dalle macerie ci vorranno 14 anni. Ma si conosce molto meno dell’impatto psicologico che il conflitto ha avuto su 1.8 milioni di persone che vivono a Gaza e sui palestinesi della Cisgiordania.
«Di solito viene descritto come trauma o stress post-traumatico, ma non è così. Si tratta di un trauma storico coloniale cumulativo, cronico, intergenerazionale, collettivo. Non danneggia solo gli individui che lo vivono, ma anche il loro senso di identità e il legame con la cultura», dice Samah Jabr davanti a una tazzina di caffè.
Jabr è una delle massime esperte in materia. Per nove anni è stata a capo dell’Unità salute mentale del ministero della Salute dell’Autorità nazionale palestinese. Insieme a decine di colleghi ha lavorato per garantire accesso alla salute mentale per migliaia di palestinesi nella Striscia. Jabr è associate clinical professor of Psychiatry and behavioral health alla George Washington University e ha lavorato con le Nazioni unite e diverse ong come Save the Children. In Italia ha pubblicato tre libri con la casa editrice Sensibili alle foglie e in questi giorni a Roma è intervenuta, tra le altre cose, in un convegno organizzato da Psichiatria democratica.
L’analisi di Jabr parte dal fatto che non possiamo parlare di conflitto, perché «significa sminuire quello che sta accadendo», in Palestina è in corso un «colonialismo». Solo così, secondo Jabr, si arriva a comprendere l’impatto psicologico nei confronti della popolazione civile.
«Un colonialismo che crea una frammentazione che isola i palestinesi dal mondo arabo e musulmano e allo stesso tempo divide la società palestinese al suo interno. Tutto ciò crea depressione e dolore psicologico che ogni palestinese avverte come solastalgia, ovvero il dolore di aver perso la terra».
Cos’è il trauma storico e come si manifesta?
Il trauma storico è un trauma che cambia la storia, che fa deragliare un popolo o un gruppo dalla sua storia proiettata come ad esempio la Nakba (l’esodo forzato della popolazione palestinese del 1948, ndr.). Nel trauma storico c'è anche l'elemento della ripetizione. A differenza di un incidente stradale che ha un inizio e una fine precisi e non è intenzionale, il trauma storico è pianificato e deliberato. Questo tipo di trauma non comporta i soliti sintomi, ma cambia l'intera personalità, la visione del mondo, il senso di sé e quello degli altri. Cambia l’identità, le relazioni e la storia.
Come ci si prepara ad affrontare situazioni simili?
Il trauma storico, coloniale e la solastalgia non sono presenti nei libri di psicologia, non causano sintomi comuni. I palestinesi che vivono in Cisgiordania hanno traumi anticipatori, hanno paura che ciò che sta accadendo a Gaza possa ripetersi anche li dove ci sono già 50-60mila sfollati dopo l’intervento militare israeliano. Ho visto bambini che smettono di alimentarsi, hanno iniziato a sentirsi in colpa per aver mangiato frutta, cioccolato o carne perché a Gaza si moriva di fame. Ho visto minori con sintomi di catatonia, sono traumatizzati dallo smembramento dei corpi perché hanno sentito di loro coetanei che venivano amputati, a volte senza anestesia, e che scrivevano il loro nome sugli arti per essere facilmente identificabili una volta morti.
Infatti i bambini sono i più vulnerabili, cosa accade nella loro mente?
In Palestina e soprattutto a Gaza, i bambini sono circa il 48 per cento della popolazione. Sono i più vulnerabili perché non hanno né meccanismi di difesa sufficienti né il linguaggio per descrivere ciò che provano. Sono stati esposti per anni a traumi dello sviluppo a causa dell'alto livello di povertà, della disoccupazione dei loro genitori e della carenza alimentare. Un bambino di 15 anni a Gaza ha vissuto cinque guerre. E ognuna di queste porta con sé perdite, paure e ansie.
Ora con la tregua a Gaza che tipo di aiuto psicologico c’è?
Nel novembre del 2023 ho pubblicato un paper su The Lancet in cui già descrivevo di come il sistema di salute mentale che abbiamo costruito con fatica a Gaza fosse al collasso. Avevamo un sistema funzionale che integrava la salute mentale nell’assistenza sanitaria primaria. Abbiamo formato medici e infermieri per rispondere ai problemi e alle richieste. Abbiamo formato persone che lavorano in ambito scolastico, avevamo molti centri di salute mentale comunitari e un ospedale psichiatrico. Tutto è collassato. Molti dei nostri colleghi o i loro familiari sono stati uccisi. Il figlio di un collega ha subito l’amputazione di entrambe le gambe. C'è quindi da chiedersi se i terapeuti, a loro volta traumatizzati, siano in grado di fornire supporto.
Da dove ripartire quindi?
Con un numero enorme di persone colpite, penso che l’approccio più appropriato sia quello collettivo. Dobbiamo istituire circoli di guarigione e gruppi di ascolto per i giornalisti che hanno vissuto cose orribili, per i medici che sono stati presi di mira, per le madri in lutto, per gli amputati. Ora manca tutto ed è anche difficile iniziare con questo approccio. Quando ero responsabile dei servizi di salute mentale ricordo il mio shock per l'incapacità di intervenire a Gaza. Poi abbiamo visto che le persone hanno cercato di aiutarsi organizzandosi in gruppi: un insegnante che raduna i bambini per farli studiare, altri invece per farli giocare facendo vivere loro un’esperienza d’infanzia. Insomma, le persone iniziavano spontaneamente ad aiutarsi a vicenda.
È la grande resilienza del popolo palestinese…
Se si taglia un grande albero, questo proverà a rafforzare le sue radici per sopravvivere. Se lo si pota, cercherà di creare nuovi rami. A Gaza la gente torna alle proprie radici. Non abbiamo risorse finanziarie o umane sufficienti, ma la cultura e la spiritualità potrebbero fornire importanti risorse psicologiche alle persone in tempi difficili.
Ora qual è l’urgenza?
Nonostante la tregua, le minacce della nuova amministrazione americana di far diventare Gaza una riviera sono un pericolo per le persone. Dobbiamo riportare la vita il prima possibile, fornendo aiuti umanitari. La gente sta morendo a causa del freddo e per le malattie croniche non curate. È importante ricostruire il sistema sanitario e creare anche una routine per i bambini. Dobbiamo farli tornare a studiare, a leggere, a non cadere nell'analfabetismo. Questo è urgente e darà alla gente un senso di vita, oltre a creare ostacoli ai piani che sono stati dichiarati.
I piani sul futuro di Gaza preoccupano la popolazione locale e la disumanizzano.
Abbiamo visto altri orrori nella storia, l'ultimo dei quali è stato l'Olocausto, ma è accaduto prima che il diritto internazionale e i diritti umani fossero applicati. L’attuale sistema creato non è riuscito a impedire ciò che è accaduto ai palestinesi. Nessuno poteva dire che non sapeva, tutto è stato trasmesso in televisione. E ora stiamo sentendo discorsi colonialisti e imperialisti molto volgari sul costruire una Riviera sopra i cadaveri. La normalizzazione di questi discorsi è molto pericolosa per l'umanità, per il diritto internazionale e i diritti umani.
Nel mondo arabo lo stigma sulla salute mentale è molto diffuso, però per i palestinesi sembra essere diverso.
Ho lavorato in Egitto, Libia, Giordania e in altre parti del Medio Oriente, credo che i palestinesi siano riusciti a uscire da questo stigma. Dico sempre che se vogliamo liberare la Palestina dobbiamo anche liberare la mente dei palestinesi, perché siano più disposte a cercare aiuto e supporto. Se c'è qualcosa di positivo nell'occupazione, è stata l'opportunità di destigmatizzare la salute mentale.
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