Resiste, tra ostacoli e smentite, l’unica parvenza di buona notizia giunta dal fronte sudanese dallo scoppio della guerra, il 15 aprile, a oggi. L’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), l’organismo internazionale politico-commerciale formata dai paesi del Corno d’Africa, a margine del vertice sul Sudan tenutosi a Gibuti sabato scorso, ha annunciato l’organizzazione di un possibile incontro faccia a faccia tra il leader delle forze armate sudanesi (Saf) e capo di stato de facto, Abdel Fattah al Burhan, e quello delle Rsf, Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti.

Il colloquio facilitato dall’organizzazione transnazionale, se confermato, potrebbe segnare una svolta in quanto sarebbe il primo tra i due leader dall’inizio delle ostilità e segnerebbe perlomeno la volontà, dopo otto mesi di atroce conflitto, di mettersi attorno a un tavolo e parlarsi.

Secondo quanto riportato da esponenti dell’Igad, prima al Burhan con una dichiarazione e poi Hemedti attraverso una telefonata avrebbero ufficialmente accettato la proposta di incontrarsi e di discutere. «I due leader», ha dichiarato il consigliere del presidente di Gibuti, Alexis Mohammed, «hanno accettato il principio di incontrarsi entro 15 giorni per aprire la strada a una serie di misure di fiducia tra le due parti che portino all’avvio di un processo politico».

La danza delle smentite

A spegnere l’iniziale entusiasmo, però, ha contribuito una serie di fattori.

Innanzitutto il fatto che, al di là dell’annuncio dell’Igad, non sono ancora pervenute dichiarazioni ufficiali da parte di nessuna delle parti in causa. Al contrario, il ministero degli Esteri ha fatto arrivare il giorno dopo una secca smentita riguardo la possibilità di un incontro imminente tra i due leader.

Il ministero sostiene che la precondizione alla partecipazione del capo delle Saf è un cessate il fuoco permanente e il ritiro delle truppe delle Rsf dalla capitale Khartoum, e critica il documento perché, oltre a non essere stato ufficialmente confermato, contiene «incongruenze e imprecisioni».

Le Rsf, invece, sembrano più possibiliste. Lunedì scorso hanno rilasciato una dichiarazione in cui si esprime il proprio sostegno ai risultati del vertice e si plaude agli sforzi internazionali per unificare le iniziative verso una soluzione politica.

La delegazione delle Rapid Support Forces ha poi dichiarato di aver tenuto un incontro separato con i leader dell’Igad e di aver presentato la propria proposta per porre fine al conflitto e raggiungere un accordo di pace globale.

L’escalation

C’è poi la situazione sul campo che non lascia molto margine alla speranza. Le Rsf continuano a guadagnare terreno e puntano a proseguire l’ avanzata in Darfur «fino a ottenere il completo controllo della regione», come dichiarato dal vicecomandante Abdel Rahim Hamdan Dagalo, fratello di Hemedti, mentre le Saf hanno intrapreso negli ultimi giorni una serie più intensa di bombardamenti sulla capitale Khartoum, per drenare le conquiste del nemico e riprendere il controllo di alcune aree.

I profughi interni ed esterni stanno ormai raggiungendo cifre spaventose: si calcola che abbiano superato i confini circa 1,5 milioni di persone, di cui un milione solo tra Ciad e Sud Sudan, due paesi già gravati da emergenze umanitarie interne e caratterizzati, essi stessi, da esodi di massa per instabilità e gravi calamità ambientali.

Sul fronte diplomatico c’è da registrare l’espulsione di 15 membri dell’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti che Khartoum accusa di sostenere finanziariamente e militarmente le Rsf, e lo stallo, ormai prossimo al blocco, del tavolo negoziale di Gedda sponsorizzato da Stati Uniti e Arabia Saudita.

«Il fatto che il ministero degli Esteri smentisca il presidente», spiega Ammar Hamoda, uno dei portavoce ufficiali all’estero di Forces of Freedom & Change, «mostra che ci sono due centri di potere nel governo, un elemento che non fa ben sperare per la riuscita dell’incontro. Inoltre, è sempre più difficile immaginare un accordo visto che sul terreno assistiamo a una continua escalation».

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