Il 29 giugno 2014 è il giorno in cui è stato proclamato lo stato islamico nei territori occupati dell’Iraq e della Siria. Sono trascorsi sette anni e l’Isis, seppure indebolito, è ancora pericoloso. La rete che ha reso l’organizzazione terroristica capace di colpire nel cuore dell’Europa è tuttora attiva. Lo rivelano alcuni documenti dell’intelligence americana e altri dell’antiterrorismo italiano. Chi indaga ora segue il denaro, un flusso finanziario sospetto che potrebbe alimentare le operazioni criminali dei terroristi dell’Isis. 

Che la minaccia preoccupi lo dimostra l’incontro del 28 giugno a Roma tra gli 83 membri della Coalizione globale anti Isis. L’incontro è stato presieduto dal segretario di stato americano Antony Blinken e dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. «Sui foreign fighters c’è ancora un lavoro da fare. Siamo preoccupati per il numero di questi combattenti detenuti in Siria, anche con le loro famiglie», ha detto Blinken, invitando «tutti i Paesi a fare di più». 

Di certo l’Italia con le sue strutture investigative prosegue nel lavoro di intelligence. Attualmente gli sforzi sono concentrati sul tracciamento dei contatti degli attentatori francesi, tedeschi e belgi e nel rintracciare i canali del finanziamento alle cellule dormienti del califfato.

Il testimone

C’è una testimonianza finora inedita che unisce le basi del terrorismo islamico che hanno seminato morte nel centro dell’Europa all’Italia. «Ho visto Abdeslam Salah prima del mio ingresso in carcere nella moschea che si trova nella zona industriale di Viareggio in un garage abusivo». A parlare è un testimone tunisino classe 1977 detenuto nella casa circondariale di Lucca per reati di spaccio di sostanze stupefacenti, che qualche tempo fa ha parlato con i magistrati. Abdeslam Salah è il cittadino belga di origini marocchine condannato per gli attentati di Parigi del 13 novembre del 2015, quando in una serie di attacchi coordinati, da Saint Denis al locale notturno Bataclan, morirono 130 persone.

Il testimone ha deciso di parlare con gli inquirenti all’indomani di quegli attentati che hanno sconvolto la Francia e l’Europa. Racconta di un incontro che ha avuto con un altro tunisino all’interno del carcere: «Lui ha un nipote di cui conosco solo il nome che aveva contatti con lo stesso attentatore Abdeslam».

Il detenuto di cui parla il testimone è indicato dalle autorità tedesche come un sospetto appartenente a una locale cellula terroristica «in grado di aver contribuito alla pianificazione di attentati dinamitardi in Germania».

«Vi racconto queste cose – dice il testimone – perché io ho fatto per tre giorni la strada per vedere dio e sono stato molto male, mi hanno fatto il lavaggio del cervello a leggere e ascoltare corano e altri libri. Quando ho finito i tre giorni ero talmente fuori di testa che sono andato a parlare con un marocchino» racconta. «A lui ho chiesto come potevo farla finita e farmi esplodere e lui mi ha risposto che era ancora presto».

Il soggetto in questione è stato identificato in un cittadino saudita e non marocchino come indicato dal testimone. Secondo gli investigatori è una persona carismatica, comunicava con i suoi collaboratori con carte vergate a mano che una volta lette venivano distrutte. Gli inquirenti però non sono preoccupati solo dai percorsi di radicalizzazione, ma anche dai flussi finanziari che riguardano in particola una moschea della Toscana. Un circuito finanziario di decine di migliaia di euro, che utilizza piccola società, srl, per ricevere soldi da altre società estere, Marocco e Belgio, e che dall’azienda in parte sono andati a finire nelle casse della moschea con la possibilità che quei finanziamenti possono essere destinati alla realizzazione «di scopi di matrice terroristica», si legge nei documenti dell’antiterrorismo.

Denaro sospetto

Numerosi soggetti in diretto contatto con alcuni attentatori sono passati per l’Italia. Recentemente in provincia di Caserta è stato arrestato il complice del responsabile dell’attentato di Nizza del 14 luglio del 2016. Si chiama Endri Elezi, è un cittadino albanese di 28 anni e su di lui pendeva un mandato di cattura internazionale. È accusato di aver venduto armi a Mohamed Lahouaiej-Bouhlel il tunisino di 31 anni e autore dell’attentato in cui morirono 86 persone. È passato per l’Italia anche Brahim Aoussaoui, sbarcato a Lampedusa dalla Tunisia la scorsa estate. Ha fatto perdere le sue tracce prima di essere espulso dal paese. In Francia, a Nizza, ha sgozzato due persone e decapitato una terza nella mattinata del 28 ottobre 2020.

Le segnalazioni sospette di finanziamento del terrorismo registrate dall’Unità per l’informazione finanziaria per l’Italia (Uif) sono aumentate. Nell’anno della proclamazione dello stato islamico erano 93, con un incremento a 273 nel 2015. Poi è tutto un crescendo: 619, 981, fino ad arrivare a 1066 segnalazioni nel 2018. Con l’avanzata della coalizione anti Isis in Siria, Iraq e Libia sono ricominciate a diminuire e nel 2019 si registrano 770 segnalazioni sospette. Alcune di queste permettono di capire meglio il sistema che c’è dietro questi finanziamenti. 

La rete finanziaria

Lo scorso 3 novembre, il Financial crimes enforcement network (Fincen, l’autorità del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti) ha inviato una segnalazione alle autorità europee. Il contenuto del documento mira ad accertare le connessioni finanziarie di Fejzulai Kujtim, l’attentatore che il 2 novembre 2020 ha ucciso quattro persone nel centro di Vienna. Attraverso la Western Union, nota società di invio e ricezione denaro, sono stati individuati tre gruppi con esponenti legati in prima persona all’attentatore e composti in totale da 238 individui che hanno generato 1.092 transazioni per un valore totale di quasi mezzo milione di dollari (473.294) tra il 28 settembre 2015 e il 25 settembre 2020. Il denaro viaggia tra stati inseriti nella lista nera del terrorismo con riferimento al jihadismo balcanico e caucasico: Cecenia, Kosovo, Albania, Azerbaigian la terra battuta dal radicalismo meno raccontata.

Con la nota inviata alle autorità italiane si scopre che Fejzulai Kujtim era già stato segnalato dal 15 febbraio del 2019 dalla Direzione centrale della polizia criminale di Roma quale soggetto da sottoporre a controllo specifico e ha effettuato transazioni con una controparte situata in Kosovo, Musa Heset, il quale a sua volta ha intrattenuto rapporti finanziari con due cittadini di origine russa domiciliati a Varese. Movimenti sospetti che hanno convinto gli inquirenti a indagare sui flussi finanziari generati dalla coppia.

I soldi inviati dalla coppia russa finita nel mirino dell’antiterrorismo viaggiavano su carte prepagate come la Poste Pay evolution e tramite agenzie di money transfer. Mezzi semplici da utilizzare per l’invio di piccole somme di denaro, con basse commissioni e meno controlli. Secondo gli inquirenti i trasferimenti finanziari erano diretti a finanziare la propaganda jihadista, motivo per cui i due russi sono stati raggiunti da un provvedimento di revoca delle misure di accoglienza lo scorso 4 agosto del 2020.

Tra i cittadini che hanno inviato somme di denaro ai russi è stato identificato un cittadino noto alle autorità dell’antiterrorismo francese, e un agente di money transfer con sede sempre a Varese. Il nome di quest’ultimo spunta in due diversi fatti giudiziari. Uno riguarda l’indagine a carico di Nadir Benchorfi il quale, secondo i servizi di intelligence olandesi, è entrato in contatto con un estremista del gruppo terroristico Jund al Aqsa che gli avrebbe ordinato di inviare denaro dall’Italia verso la Siria. Durante gli interrogatori Benchorfi ha confermato di aver inviato rimesse di denaro destinate sia a persone in difficoltà economica indicati dallo Stato islamico sia a persone desiderose di raggiungere il Medioriente per combattere al fianco dei miliziani.

Parte del denaro è giunto in Marocco, Palestina e Turchia. Stando alle carte, Benchorfi è stato arrestato «perché partecipava all’organizzazione terroristica sovranazionale denominata Stato islamico, allo scopo di commettere atti di violenza con finalità di terrorismo e in particolare di partecipare alle varie attività terroristiche realizzate dallo Stato islamico» sia in Siria che all’estero «e in particolare nel territorio dello stato italiano».

Dalle moschee francesi all’Italia

Un’altra segnalazione sospetta dell’antiriciclaggio si concentra su una rete di finanziamenti tra moschee francesi e persone residenti nel territorio italiano. In particolare è menzionato il legame tra alcune associazioni islamiche, oggetto di indagini in Francia per terrorismo, e un imprenditore edile di origini tunisine domiciliato in Italia nella provincia di Ravenna.

L’imprenditore era già stato arrestato in flagranza di reato nel 1999 e condannato per spaccio di eroina proveniente dalla Repubblica Ceca e finita nelle piazze di Milano. Una volta tornato in libertà la sua azienda ha iniziato a fare affari in Francia a partire dalla seconda metà del 2013, ottenendo appalti e commesse per la costruzione di luoghi di culto islamici per conto di numerose associazioni.

Tuttavia, a insospettire gli inquirenti non è solo il circuito finanziario con cui l’imprenditore ottiene il denaro – circa 240mila euro con bonifici a cifra tonda, decine di prelievi in contanti nello stesso giorno in bancomat diversi – ma anche le associazioni con cui intrattiene rapporti. Si tratta di associazioni islamiche al centro dei sospetti dell’antiterrorismo francesce, con imam radicali e passati burrascosi.

Agli inquirenti sembra improbabile che una piccola azienda edile, possa fare affari di quella portata in Francia. Oltretutto della rete dell’imprenditore fanno parte altri personaggi sospettate di attività di riciclaggio e terrorismo. Per gli investigatori il canale finanziario tra le associazioni islamiche francesi e l’imprenditore edile è usato per trasferire denaro sull’asse Italia/Francia. Soldi che sarebbero destinati ad attività di proselitismo integralista in grado di avviare percorsi di radicalizzazione anche direttamente legati al fenomeno del finanziamento del terrorismo.

Reclutamento online

Negli anni, ricercatori e forze di sicurezza internazionali hanno più volte cercato di studiare il fenomeno del reclutamento e della radicalizzazione dei terroristi. Tra i sistemi più usati dai reclutatori ci sono i social network. Si va dalle chat private di Telegram a Facebook passando per Instagram e il deep web.

Qui gli estremisti hanno accesso a messaggi violenti, contatti diretti con chi è al fronte e alle guide su come arrivare in Siria attraversando il confine turco. App criptate, linguaggi in codice, e varie riviste pubblicate online hanno diffuso la propaganda dell’Isis, cavallo di Troia che ha permesso all’organizzazione di entrare in Europa e negli Stati Uniti per reclutare migliaia di persone (sono circa 40mila i Foreign fighter andati in Siria).

L’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, è stato tra i primi a capire che per sconfiggere l’Isis non bastava l’offensiva terrestre ma era necessario chiudere la rete. Come mostrano alcuni documenti non più segreti, Obama ha autorizzato Glowing Symphony la più grande cyber operazione condotta dalle autorità statunitensi.

La missione, partita nel 2016, ha preso di mira i media e le operazioni online dell’Isis abbattendo le sue infrastrutture e impedendo ai membri di comunicare tra loro. L’offensiva ha avuto un buon esito senza troppe difficoltà. Gli operatori hanno individuato circa dieci account, i quali gestivano quasi tutto il flusso dei contenuti pubblicati in rete. Con phishing email e malware i militari hanno ottenuto le chiavi di accesso. C’è voluto qualche mese e diversi attacchi chirurgici per neutralizzare gran parte del sistema.

Il ruolo delle carceri

Una buona parte dei miliziani si sono radicalizzati in carcere. Secondo un documento del Joint regional intelligence center le nuove leve vengono attirate con “esche” materiali: cibo, piccoli favori e anche con un appoggio spirituale e sociale. La mancata presenza di imam qualificati, o addirittura la presenza di imam nominati tra i prigionieri è uno dei motivi che hanno favorito l’espansione della radicalizzazione.

Secondo i dati più recenti di aprile 2021 i soggetti detenuti in Italia per reati legati al terrorismo internazionale sono 45 e si trovano nelle sezioni di “Alta Sicurezza 2”. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) in totale sono 375 i detenuti che sono radicalizzati, di questi, quelli attentamente monitorati sono 170, mentre 80 quelli attenzionati e 125 i segnalati.

È proprio nelle carceri che si è radicalizzato Abdelhamid Abaaoud, tra gli autori degli attacchi coordinati di Parigi del novembre 2015. Abaaoud era il maggiore di sei figli ed è cresciuto nella periferia di Bruxelles, dove il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 40 per cento. Proviene da una famiglia non praticante e non cresce mostrando interessi nell’Islam.

Secondo quanto scritto in un report del National counter terrorism center, Abaaoud è stato coinvolto in piccoli crimini e ha passato un periodo di tempo della sua adolescenza in carcere. Qui ha incontrato i detenuti che lo hanno radicalizzato spingendolo a raggiungere la Siria una volta uscito di prigione.

Per il califfo dell’Isis, poi ucciso, Abu Bakr Al Baghdadi l’esperienza a Camp Bucca, in Iraq, è considerata una tappa fondamentale nella sua scalata al potere verso il califfato. Il tutto è avvenuto sotto il controllo dei soldati statunitensi che non si sono accorti di cosa stesse accadendo sotto i loro occhi. La prigione statunitense in territorio iracheno ha ospitato migliaia di detenuti ogni anno. Un jihadista, dal nome di battaglia Abu Ahmed ha dichiarato al Guardian che dentro quel campo a cielo aperto è stato facile pianificare e gettare le basi per la nascita dell’Isis.

«Quando ci hanno liberato è stato facile ritrovarsi: ci eravamo scambiati indirizzi e numeri di telefono scrivendoli sugli elastici delle mutande» ha raccontato. Le autorità statunitensi non si sono resi conto dell’opportunità data ai prigionieri. «Lì non solo eravamo al sicuro, ma ci trovavamo a pochi metri di distanza dall’intera leadership di al Qaeda».

Abu Ahmed ricorda che al Baghdadi «era molto rispettato dall'esercito americano» e aggiunge che «se non ci fosse stata la prigione americana in Iraq, ora non ci sarebbe nessun stato Islamico. Bucca era una fabbrica. Ha costruito tutti noi. Ha costruito la nostra ideologia».

Stessa cosa è accaduta nel carcere di Abu Graib, situato sempre in Iraq ma chiuso nel 2014 dopo vari scandali di violazioni di diritti umani e torture a danno dei prigionieri. Scosse elettriche, intimidazioni con i cani, abusi sessuali e botte erano prassi per alcuni detenuti. Tanto che vengono aperte le prime inchieste interne. Un sistema che ha contribuito ad alimentare un sentimento di vendetta nei confronti degli Stati Uniti e ha spinto vari detenuti a entrare tra le fila del terrore.

Le falle del sistema detentivo sono evidenti e non sono mancati neanche casi di evasione come accaduto a Camp Bucca. Un documento desecretato, infatti, mostra che è stata aperta un’indagine interna dopo che un detenuto è riuscito a scappare il 7 gennaio del 2004 (anni in cui per il campo sono transitati migliaia di jihadisti).

L’Isis non è ancora morto

I colpi inferti in battaglia contro l’Isis sono stati duri, ma non ancora decisivi. Sono migliaia i miliziani in giro tra Iraq e Siria. Senza considerare i loro figli che si trovano in centri di detenzione a cielo aperto come quello di al Hol, dove le condizioni degradanti e l’emarginazione rischiano di innescare un processo di radicalizzazione pericoloso.

Nel febbraio del 2020 un bollettino di intelligence statunitense ha lanciato un allarme riguardo alla possibilità di nuovi attacchi terroristici dopo l’audio rilasciato dalla nuova guida dell’Isis Abu-Hamzah al-Qurashi.

Nell’audio si chiede di compiere attacchi sia contro Israele sia contro i paesi arabi membri della coalizione anti Isis per vendicare la morte di al Baghdadi. E di farlo usando ogni mezzo possibile, anche con l’uso di attacchi chimici, l’obiettivo è cogliere impreparate le forze dell’ordine.

In un documento del New Jersey regional operations and intelligence center (Roic) si legge che la pandemia possa essere un’opportunità per i jihadisti: «Questi gruppi sfruttano le guerre, i collassi sociali e le pandemie, facendo leva sulle vulnerabilità di una data popolazione. Recentemente ci sono stati numerosi rapporti da una newsletter settimanale online dell'Isis che invita i sostenitori a eseguire attacchi contro le strutture sanitarie».

A oltre sette anni dalla proclamazione del califfato, l’Isis ha ancora una testa e dei tentacoli pericolosi sparsi in tutto il mondo.

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