Il tema della normalizzazione delle relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita rappresenta uno dei principali dossier di politica estera che si troverà sulla scrivania il prossimo governo israeliano, a seguito delle elezioni del 1° novembre. Nell’opinione pubblica israeliana, così come tra le principali forze politiche del paese, si respira un entusiasmo diffuso per il nuovo corso inaugurato con la firma degli Accordi di Abramo.

In questo contesto, l’eventuale ingresso saudita nel framework abramitico viene percepito dall’establishment politico-militare israeliano come il tassello mancante del mosaico, un fattore in grado di mutare a proprio favore l’equilibrio regionale. Pertanto, qualsiasi governo verrà formato dopo il responso delle urne, c’è da attendersi un immutato investimento nel processo di normalizzazione con Riad.

Dal canto suo, l’Arabia Saudita sta ancora temporeggiando. Restia alle soluzioni adottate da Emirati Arabi Uniti e Bahrain, Riad ha preferito investire in un percorso di avvicinamento graduale che si dispiegherà in un arco temporale più lungo. Il dialogo discreto israelo-saudita si inserisce nel processo di integrazione regionale, con l’asse Israele-Golfo come suo architrave, che trova origine nella riconfigurazione del medio oriente post americano affermatosi a partire dagli anni dell’amministrazione Obama.

Ponendo fine alla stagione interventista inaugurata da Bush jr a seguito degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, Obama ha dato avvio a un percorso di graduale disimpegno americano da tale quadrante regionale, per concentrare il proprio impegno internazionale sulla sfida egemonica portata dalla Repubblica popolare cinese. Nei teatri secondari come quello mediorientale, da quel momento gli Stati Uniti hanno perpetuato una forma di egemonia aereo-marittima, appaltando agli attori regionali la costituzione di un equilibrio di potenza autosufficiente.

Due erano le direttrici su cui si basava la politica mediorientale minimalista dell’allora amministrazione americana: il sostegno alle Primavere arabe del 2011 e la firma dell’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) del 2015 – a cui si opposero Israele e monarchie del Golfo. Dinnanzi a tale scenario, gli alleati mediorientali di Washington hanno percepito l’urgenza di assumere un coefficiente di responsabilità maggiore nella gestione di un’architettura regionale in linea con i propri interessi. Il graduale disimpegno americano li ha così convinti ad approfondire le reciproche relazioni; non già solamente attraverso canali di cooperazione segreti bensì attraverso nuove forme di collaborazione istituzionalizzata.

Il risultato principale di questo mutamento sistemico è rappresentato proprio dal superamento del veto anti israeliano da parte delle monarchie del Golfo, e dalla conseguente cooptazione dello Stato ebraico nei meccanismi di cooperazione regionale. Con la firma degli Accordi di Abramo nel 2020 Eau e Bahrain hanno formalizzato le relazioni con Israele. Pur rientrando nel medesimo schema, l’Arabia Saudita ha intrapreso un percorso più cauto, che tuttavia sta puntando al medesimo risultato, grazie anche al sostegno americano, inaugurato da Trump e confermato da Biden.

Più nello specifico sono diversi i dossier in cui interessi, valutazioni e obiettivi dei due Paesi convergono. Dalla cooperazione in materia di difesa alla volontà di collaborare su temi economici, puntando alla costruzione di un mercato comune regionale; dalla complementarietà dei due sistemi-Paese in campo tecnologico e industriale, a opportunità di cooperazione nel settore energetico e infrastrutturale.

Normalizzazione

Come dichiarato da diversi rappresentanti dei due paesi, la normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita passerà attraverso una road map, cioè un percorso per step progressivi di lunga durata. Nell’ultimo decennio si è assistito a un’intensificazione dei viaggi riservati di funzionari israeliani in Arabia Saudita e viceversa, come quello mai pubblicamente confermato dell’allora premier israeliano Netanyahu, che nel 2020 avrebbe incontrato a Neom il principe ereditario saudita.

Inoltre, in diverse occasioni i vertici dei due Paesi si sono pronunciati pubblicamente a favore della normalizzazione. Nell’aprile 2021, alla Cnn il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan al Saud, ha affermato che una tale evoluzione sarebbe vantaggiosa sotto il profilo economico e della sicurezza regionale. Da parte israeliana il presidente della Repubblica Herzog, intervistato da Israel HaYom, ha manifestato il desiderio di recarsi presto in una visita ufficiale nel regno saudita.

Dopo mesi di negoziati, i primi frutti concreti del processo di avvicinamento israelo-saudita sono stati annunciati in occasione del tour mediorientale del presidente Biden dello scorso luglio. Un primo risultato è stata la rimozione del divieto che impediva alle compagnie aeree israeliane di attraversare lo spazio aereo saudita. Sulla falsariga di tale intesa sono inoltre iniziati i negoziati per stabilire collegamenti aerei diretti tra Tel Aviv e gli aeroporti sauditi per i soli pellegrini musulmani con passaporto israeliano.

In secondo luogo, le autorità israeliane hanno dato il via libera al passaggio di sovranità delle isole di Tiran e Sanafir, all’imbocco del Golfo di Aqaba, dall’Egitto all’Arabia Saudita, con il conseguente ritiro delle forze di peacekeeping della Multinational Force and Observers, che verranno dispiegate altrove. È opportuno attendersi nei prossimi mesi ulteriori avanzamenti di simile portata.

Un’architettura di sicurezza

Nondimeno la partita più importante si gioca sul piano della difesa. La cooperazione su questo fronte è resa possibile dalla decisione del Pentagono del 2021 di spostare Israele nell’area di responsabilità di CENTCOM. Evoluzione che ha dato il via libera alla partecipazione delle forze armate israeliane a diverse esercitazioni multinazionali con la partecipazione dei partner arabi.

Negli ultimi mesi la volontà americana di tornare al JCPOA sta accelerando i piani di costruzione di una architettura di deterrenza e difesa arabo-israeliana tra Paesi che, seppure con sensibilità diverse, considerano la politica regionale iraniana una minaccia alla propria sicurezza nazionale. Il progetto al momento più concreto è quello di un sistema di difesa aereo integrato da costruire sotto egida americana, definito Middle East Air Defense Alliance (Meada) – improbabile invece la costruzione di una più strutturata “Nato del Medio Oriente”. Non vi è certezza su quali siano i Paesi coinvolti, ma è probabile che oltre a Israele e i Paesi arabi con cui già intrattiene relazioni diplomatiche vi sia anche Riad.

Come dichiarato nel corso dell’audizione presso la commissione Servi Armati del senato americano dal neocomandante Centcom, Michael Kurilla, una delle priorità di Washington nella regione è quella di creare un ombrello protettivo contro le minacce provenienti da Teheran. Ancora più esplicite sono state le dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano Gantz in audizione presso la commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset. Pur non menzionando i Paesi coinvolti, Gantz ha confermato che il progetto sia in parte già operativo e abbia come obiettivo quello di contrastare attacchi per mezzo di razzi, missili e droni. Secondo alcune fonti un primo test della nascente cooperazione è stato effettuato il 15 marzo 2021, quando sono stati abbattuti droni iraniani.

Evoluzioni

È difficile immaginare che la normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita possa concludersi in breve tempo. Se dal punto di vista israeliano i tempi sono maturi, variabili domestiche, piuttosto che internazionali, limitano il margine di manovra saudita su questo dossier; su tutte, il delicato percorso di successione alla guida del regno del principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS), impegnato da anni a preparare la sua ascesa al trono, assicurandosi di disinnescare in anticipo potenziali cordate dissidenti interne alla famiglia reale. In questa direzione va la sua nomina a primo ministro.

Se dietro le quinte la cooperazione israelo-saudita risulta essere ben avviata, anche grazie alle già richiamate forme di “tutoraggio” americano, il pieno stabilimento delle relazioni diplomatiche si farà ancora attendere, a meno di un cambio repentino alla guida del regno. In definitiva, essendo dettata da cause sistemiche e di lungo periodo, la domanda a cui trovare risposta non è «se» la normalizzazione possa compiersi o meno, ma «quando» questo scenario, invero piuttosto probabile, possa materializzarsi.

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