Ieri sera il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha fatto un breve discorso alla nazione nel quale ha confermato che l’invasione di terra di Gaza ci sarà, ma in tempi e modalità ancora da stabilire. Il primo ministro ha garantito che farà tutto il possibile per riportare a casa gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, dato che al momento solo quattro sono stati liberati, e ha ribadito che l’obiettivo è eliminare il gruppo terroristico palestinese.

Non è ancora chiaro da cosa dipenda l’attesa dell’invasione, ma Netanyahu ha voluto placare le speculazioni sulle operazioni militari. E lo ha fatto con un tempismo notevole: poche ora prima il Wall Street Journal aveva pubblicato un articolo in cui sosteneva, basandosi su fonti americane e israeliane, che il governo d’Israele aveva accettato la richiesta degli americani di ritardare un’operazione di terra. Sembra così che il premier abbia voluto rassicurare chi chiede una vendetta della massima intensità

Un passo indietro

Le parole del segretario generale dell’Onu Guterres («L’attacco di Hamas non nasce in vuoto») riecheggiano nel resto della comunità internazionale, in attesa dell’invasione via terra di Gaza, eternamente incombente, e in attesa della liberazione degli ostaggi, su cui Stati Uniti e Qatar stanno negoziando con l’aiuto della Croce rossa internazionale. Guterres si è detto «sconcertato da come le mie affermazioni di ieri sono state interpretate da alcuni, come se io stessi giustificando il terrore di Hamas», che ha poi esplicitamente condannato, e ha reiterato su X, vecchio Twitter, quanto detto al Consiglio: «La sofferenza della popolazione palestinese non giustifica gli orribili attacchi di Hamas. Questi orrendi attacchi non possono giustificare la punizione collettiva della popolazione palestinese». 

L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan, che già aveva chiesto le dimissioni di Guterres, ha annunciato che il paese avrebbe negato i visti ai funzionari Onu. «Abbiamo già rifiutato il visto al sottosegretario generale per gli affari umanitari Martin Griffiths», ha scritto Erdan su X. Ha anche detto che il premier Benjamin Netanyahu ha rifiutato le chiamate di Guterres, che dal 7 ottobre ha chiesto per due volte di parlare con il leader israeliano.

Sempre su X, arriva la solidarietà a Guterres di Pedro Sánchez, premier spagnolo: «Ciò che sta facendo è alzare la voce di una ampia maggioranza delle società del mondo, che vogliono una pausa umanitaria, aiuti umanitari».

A Gaza

La situazione a Gaza è infatti al collasso: alcuni aiuti sono arrivati attraverso il valico di Rafah, ma un volontario a Jabalia, uno dei campi profughi più grandi di Gaza, ha detto alla Bbc che i rifornimenti arrivati lì bastano per un solo rifugio e che la gente soffre la fame. Sempre la Bbc ha raccontato la storia di Ali Daba, un uomo a Khan Younis che sta legando dei braccialetti colorati ai polsi dei suoi bambini, per essere sicuro siano identificabili «nel caso succedesse qualcosa». L’Agenzia Onu per i rifugiati ha detto che se continua a non arrivare il carburante «dovrà prendere delle decisioni molto difficili».

Gli altri fronti

Anche le prospettive di un allargamento del conflitto spaventano gli altri paesi. Oltre alla preoccupazione per il confine libanese, dove continuano gli scontri a fuoco di artiglieria e lanci di razzi tra Israele e Hezbollah, l'esercito israeliano ha detto di aver colpito alcune infrastrutture appartenenti all'esercito siriano, come reazione a dei razzi lanciati dalla Siria la sera precedente. Stati Uniti e Iran si accusano a vicenda di essere dietro il conflitto: se l’intelligence statunitense non pensa ci sia stato un coinvolgimento diretto di Teheran negli attacchi del 7 ottobre, il segretario di stato Antony Blinken ha comunque avvisato che gli Stati Uniti sono pronti a difendersi nel caso di un intervento iraniano o di altri suoi agenti «per procura». L’ayatollah Ali Khamenei ha invece sostenuto che gli Stati Uniti sono «complici certi» di Israele: «le mani dell’America [sono] piene di sangue».

Le forze di difesa israeliane continuano anche i loro raid in Cisgiordania. Il campo profughi di Jenin è stato colpito da dei droni con l’obiettivo di colpire degli uomini armati: l’esercito si è riferito alle proprie azioni come a «operazioni antiterroristiche». Un reporter di Al Jazeera, da Ramallah, ha detto che l’esercito è entrato a Jenin con «i bulldozer che usano per distruggere le case». Nelle ultime settimane i morti in Cisgiordania sono almeno 100, secondo Time, segnando uno dei «periodi più insanguinati degli ultimi 15 anni» per la regione, governata dall’Autorità nazionale palestinese.

Il futuro

In tempo di guerra le parti ragionano giorno per giorno, ma gli altri attori pensano ai passi successivi. Il Financial Times ha scritto che gli Stati Uniti sono preoccupati che Israele non abbia ancora un piano per il futuro di Gaza, e secondo delle fonti sarebbe proprio la mancanza di un progetto che sta ritardando l’invasione via terra. Gli ostaggi poi sono ancora un nodo delicato. Le televisioni israeliane ieri hanno riportato una fonte anonima straniera, che starebbe seguendo i negoziati: ci sarebbero degli «sviluppi positivi».

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