Altro che nazione start up, la crescita degli haredim trascina Israele nel fanatismo religioso

Tel Aviv – Il Peres Center for Peace and Innovation è un parallelepipedo di vetro e cemento disegnato da Massimiliano Fuksas e appoggiato a due passi dalla spiaggia di Jaffa, la parte di Tel Aviv dove vive ciò che resta della minoranza araba in città. Il centro è stato fondato dal grande statista israeliano per custodire la sua eredità politica ma soprattutto per raccontare al mondo un paese innovativo e dinamico sempre proteso verso l’avvenire. Nel centro ci si imbatte in mappe interattive che raccontano la storica capacità creativa di Israele, che vanta una strabiliante lista di invenzioni, dall’irrigazione a sgocciolo agli stent coronarici a maglia flessibile fino alle tecnologie per la desalinizzazione e ai sistemi di messaggistica digitale che hanno anticipato di qualche decennio WhatsApp e simili. C’è anche un percorso con i visori che mostra quello che le migliori menti del paese stanno sviluppando per rivoluzionare il modo in cui concepiamo la salute, il cibo, l’informazione e molto altro. Israele, cresce il movimento contro la grazia a Netanyahu: «Basta menzogne» Visto da qui, Israele è una navicella spaziale lanciata verso nuove frontiere. Il racconto che il paese fa di sé all’esterno è ricalcato sull’epopea della “start up nation”, termine che compare ovunque ed è diventato una specie di feticcio narrativo. L’insistenza sull’aspetto vibrante e ipertecnologico della società israeliana ha anche il pregio di distogliere, almeno in parte, l’attenzione dalla tragedia di Gaza e dalla conflittualità della regione, presentando il paese attraverso le sue potenzialità creative e mettendo in secondo piano quelle distruttive. I numeri sono notevoli. In Israele sono attive oltre 3mila start up tecnologiche e 25 “unicorni” (aziende che superano il miliardo di dollari di capitalizzazione), il settore impiega 442mila persone, un incremento del 2,6 per cento rispetto al 2024, e i nuovi progetti hanno raccolto oltre 12 miliardi di dollari da investitori locali e internazionali, una crescita del 18 per cento sull’anno precedente. È un salto enorme se si considera l’anemico scenario economico internazionale che diventa miracoloso per un paese in guerra e vittima di boicottaggi economici. Il paese produce a ciclo continuo nuovi prodotti e servizi tecnologici, e fra le innumerevoli operazioni del settore nel corso dell’anno basta citare Wiz, azienda di cybersicurezza acquistata da Google per 32 miliardi di dollari. Gaza scompare: c’è solo il 7 ottobre. Così Israele scolpisce la sua storia L’altra storia Questi numeri raccontano però solo una parte della storia del paese. Altri numeri illustrano dinamiche diverse, che vanno nella direzione opposta rispetto al mito della nazione start up. Intanto, il settore hi-tech vale, secondo le stime più generose, il 20 per cento dell’economia del paese (alcuni economisti sostengono che sia attorno al 10 per cento) ed è perciò un settore produttivo significativo, ma non la spina dorsale che regge il corpo economico. Ma il punto decisivo è la dinamica demografica. Il paese che ora è assorbito dal nemico esterno deve fare i conti con una frattura interna che sta rapidamente diventando un fossato; mentre con una mano mostra le invenzioni avveniriste, con l’altra deve affrontare l’inarrestabile crescita degli haredim, le comunità di ultra-ortodossi che vivono separate da tutti gli altri, godono di importanti sovvenzioni statali, sono largamente dispensate dal servizio militare e tendono a essere molto più poveri rispetto agli ebrei secolari. Gli haredim sono il 14 per cento della popolazione, ma il tasso di fertilità in quelle comunità è di 6,6 figli per donna, contro i 2 fra gli ebrei secolari. Le proiezioni di crescita sono varie, ma una stima condivisa è che nel 2048 gli haredim saranno il 23 per cento della popolazione totale di Israele, un incremento enorme sia in termini assoluti sia relativi, visto che gli ebrei secolarizzati saranno a quel punto poco più del 50 per cento della popolazione, in netto calo rispetto al 60 per cento di oggi. Significa che la somma fra ebrei ultra-ortodossi e arabi-israeliani sarà molto simile a quella degli ebrei secolari. I demografi prevedono che nel 2065 il 49 per cento degli israeliani sotto i sedici anni proverrà da una comunità ultra-ortodossa. La vita degli haredim è scandita da logiche sociali e categorie ideologiche che sono impossibili da decodificare per il resto d’Israele, e anche al suo interno il mondo degli ultra-ortodossi è una complicata galassia di sette e tradizioni difficile da mappare. Gerusalemme è una finestra sul futuro demografico del paese. Gli ebrei sono il 57 per cento degli abitanti della capitale (dove vivono oltre un milione di persone) e per la prima volta quest’anno gli haredim hanno superato gli ebrei secolarizzati. Non è raro imbattersi in giovani (ma non solo) che abbandonano una città in cui sentono che il progetto laico e democratico dello stato di Israele è messo in crisi da un’ondata di fanatismo religioso e separatismo sociale. Altro che nazione start up. «Ormai ci sono soltanto due, forse tre quartieri in cui possiamo ancora abitare senza sentirci a disagio», dice un giornalista e saggista che è nato e cresciuto a Gerusalemme ma come tanti sta meditando di trasferirsi a Tel Aviv. La via messianica di Netanyahu. All’ombra dei carri armati su Gaza La questione dell’esercito La presenza sempre più imponente degli haredim pone questioni politiche urgenti. La più incandescente è quella del servizio militare. Gli ultra-ortodossi godono di un’esenzione dall’esercito dall’origine dello stato d’Israele, ma allora si trattava di un’eccezione per alcune migliaia di studiosi della Torah. Nel tempo i tribunali israeliani hanno eroso e infine smontato il diritto di non arruolarsi, aprendo una complicata fase conflittuale all’interno della società israeliana. Nella guerra di Gaza circa 60mila uomini sono stati esentati dalla chiamata e dei 20mila ultra-ortodossi che hanno ricevuto la chiamata si sono presentati in caserma poco più di mille. Gli haredim sono organizzatissimi quando si tratta di protestare contro la leva o di impedire fisicamente che le autorità vengano a prendere quella minoranza di uomini che è stata coscritta. A Boaz Bismuth, parlamentare del Likud e capo della commissione affari esteri e difesa alla Knesset, è toccato l’ingrato compito di presentare un disegno di legge per portare gli haredim nell’esercito. «Presto qui ci sarà la rivoluzione francese», ha detto Bismuth in un incontro con alcuni giornalisti italiani, nell’ambito di una visita organizzata dall’ambasciata israeliana a Roma, qualche giorno prima di presentare il testo. E rivoluzione è stata. L’opposizione e una parte significativa della maggioranza sono insorte contro un disegno di legge considerato troppo permissivo, dato che costringe soltanto gli ultra-ortodossi che non sono impegnati a tempo pieno negli studi religiosi ad arruolarsi, ed elimina le sanzioni per i renitenti una volta compiuti i 26 anni. Cisgiordania, tre attivisti italiani feriti dai coloni israeliani. Netanyahu chiede a Herzog la grazia per sé stesso Yair Lapid, il leader dell’opposizione, ha definito la legge una «disgrazia», mentre l’ex ministro e capo dell’esercito centrista Benny Gantz ha detto che «uno sputo in faccia ai nostri soldati». Anche il ministro delle finanze e leader dell’ultradestra Bezalel Smotrich si è espresso in modo critico su un testo che non cambia la sostanza della situazione, e diversi membri del suo partito hanno dichiarato che voteranno contro. La questione del servizio militare è però soltanto quella politicamente più spinosa fra quelle che riguardano il rapporto fra gli haredim e la società israeliana nel suo complesso. Il dilemma che la crescita degli ultra-ortodossi pone riguarda la natura stessa del progetto dello stato ebraico e il carattere di eccezionalità rispetto al panorama della regione. Israele è un’eccezione liberal-democratica in un’area dominata in gran parte da governi di ispirazione confessionale, teocrazie, logiche settarie, fanatismi e pulsioni apocalittiche; dietro agli spot sulla vibrante start up nation che balla al ritmo della Silicon Valley, cresce la pressione per trasformare il paese in un altro pezzo di Medio Oriente.