Il Dipartimento del commercio degli Stati Uniti d’America ha iscritto la società israeliana Nso, specializzata in cybersicurezza e spionaggio, a un elenco di soggetti colpevoli di “attività cibernetiche malevole” considerate “contrarie alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti”. La società non potrà essere attiva nel territorio Usa o utilizzare servizi americani perché avrebbe “sviluppato e fornito spyware a governi stranieri che l’hanno usato per prendere di mira in modo scorretto ufficiali, giornalisti, imprenditori, attivisti, accademici, dipendenti delle ambasciate”.

Il provvedimento, ufficializzato mercoledì, pesa sui rapporti bilaterali perché, trattandosi di attività di interesse strategico per la sicurezza nazionale, Nso ha lavorato negli anni in coordinamento con le agenzie di sicurezza israeliane, con l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo successore Naftali Bennett.

Quest’ultimo voleva addirittura coinvolgerla nel tracciamento dei contagi di Covid-19. La decisione rappresenta un nuovo elemento di cesura rispetto alla stagione della luna di miele fra l’ex presidente americano Donald Trump e Netanyahu.

Si configura come un monito dell’amministrazione di Joe Biden allo stato ebraico, principale alleato degli Usa in Medio oriente, dopo le recenti tensioni sull’espansione degli insediamenti in Cisgiordania e sul ritorno ai negoziati sul nucleare con l’Iran.

Repressione transnazionale

Pegasus, il sistema sviluppato da Nso, è in grado di infiltrare e pilotare da remoto smartphone con grande facilità. I noti rapporti commerciali dell’azienda con una serie di regimi autocratici nel mondo, che hanno utilizzato la tecnologia per perseguitare attivisti, giornalisti e dissidenti politici, sono stati oggetto di un’inchiesta giornalistica internazionale di largo respiro lo scorso luglio.

L’utilizzo di WhatsApp per infiltrare gli smartphone ha procurato a Nso una causa dell’azienda proprietaria Facebook. Fra i bersagli illustri del sistema Pegasus ci sarebbe stato anche, per mano saudita, un sodale del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, eliminato dal regime di Riyadh nel consolato di Istanbul nell’autunno 2018.

I servizi marocchini avrebbero pianificato di utilizzarlo addirittura per intercettare il presidente francese Emmanuel Macron, che ne ha chiesto conto a Bennett ancora la scorsa settimana al summit sul clima di Glagow (l’estate scorsa il ministro della Difesa Benny Gantz era volato a Parigi per cospargersi il capo di cenere).

Secondo l’amministrazione Biden, Nso sarebbe colpevole di favorire il fenomeno della “repressione transnazionale”, un’espressione che allude a forme di repressione dalle più estreme, come delitti e rapimenti di stato in territorio straniero, a quelle più blande come intimidazioni online e sorveglianza da remoto.

Un rapporto della ong americana “Freedom House” pubblicato lo scorso febbraio cataloga 608 casi di “repressione transnazionale” dal 2014, spiegando il fenomeno in parte con la possibilità di esiliati influenti di rimanere “scomodi” tramite forme di comunicazione a distanza. Secondo la Ong il 78 per cento delle vittime sarebbero di religione musulmana.

Tech e accordi di Abramo

La vendita di tecnologie come quelle di Nso ai regimi autocratici del Medio oriente è stato un fattore nel processo di avvicinamento di Israele ai paesi che hanno aderito agli accordi di Abramo lo scorso anno. L’ondata di normalizzazione con Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco, oltre al riavvicinamento con l’Arabia Saudita e altri attori tradizionalmente ostili allo stato ebraico, è stata architettata dall’amministrazione Trump come una serie di accordi di scambio.

Abu Dhabi ottenne dagli Usa lo sblocco della vendita dei jet F-35, Khartoum la rimozione dalla lista di paesi che favoriscono il terrorismo, Rabat il riconoscimento del Sahara occidentale come territorio marocchino. Tutti si assicurarono l’accesso al tech israeliano, in alcuni casi fornito anche in anticipo rispetto alla svolta diplomatica, compresi gli strumenti che ora Washington bolla come “malevoli”.

Nel frattempo diversi analisti di Iran ipotizzano Israele possa essere dietro a un attacco cyber che ha mandato in panne il sistema per la distribuzione di carburante alle pompe di benzina di Teheran lo scorso 26 ottobre. Quello dei rapporti con l’Iran è un altro motivo di tensioni con gli Stati Uniti. Parallelamente all’interruzione dei servizi, dei cartelloni digitali diffondevano un invito a chiedere conto dei disagi al regime: “Khamenei (la guida suprema), dov’è il nostro gas?”. Israele si oppone al ritorno al negoziato sul nucleare, voluto da Biden dopo che Trump aveva rinnegato l’accordo Jcpoa stretto da Obama nel 2015.

Lo stato ebraico lo considera uno specchietto per le allodole usato da Teheran per riuscire ad ottenere le armi nucleari senza subire eccessive pressioni internazionali. E considera le sanzioni, che andrebbero a scemare in caso di esito proficuo dei negoziati, necessarie a limitare i flussi finanziari con cui Teheran finanzia una rete di milizie sciite in Medio oriente, da Hezbollah in Libano alla Jihad islamica a Gaza, che accerchiano e minacciano Israele. A pesare sull’asse Washington-Gerusalemme è tornata ad esserci anche questione palestinese, ignorata negli anni di Trump.

L’amministrazione Biden non ha gradito la messa fuori legge di sei Ong palestinesi accusate di terrorismo (difficile dire se il ritardo di questi giorni nel decreto attuativo dell’esercito, necessario per rendere il provvedimento esecutivo in Cisgiordania, possa essere legato alla disapprovazione della Casa Bianca). E ha criticato in maniera molto esplicita l’approvazione di migliaia di nuove unità abitative in Cisgiordania.

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