Anche l’Italia sta muovendo i primi passi per armare i propri droni, trasformando quelli che fino a oggi sono stati strumenti utili per operazioni di sorveglianza e rilevamento in sistemi capaci di condurre attacchi mirati. La svolta ha conseguenze sul piano politico e sulla postura stessa dell’Italia nello scenario internazionale.

Le informazioni sul progetto del ministero della Difesa sono contenute nel Documento programmatico pluriennale per il triennio 2021-2023 diffuso di recente dal ministero, ma sono scritte con un linguaggio così tecnico da renderne difficile la comprensione.

Nel testo si parla di aggiornamento del payload Mq-9 e di una più flessibile capacità di difesa esprimibile dall’aria. Non si usa esplicitamente il termine “armi” e si preferisce identificare i sei droni Reaper con la sigla Mq-9.

Dietro questi tecnicismi si nasconde il progetto di trasformare i droni in sistemi d’arma a controllo remoto, capaci di condurre operazioni offensive senza coinvolgere direttamente il personale militare. Secondo le stime del ministero, l’armamento dei droni dovrebbe costare 168 miliardi di euro, con una prima tranche di 59 miliardi da distribuire lungo i prossimi sette anni.

A oggi però non è ancora chiaro quali armi saranno caricate sui droni italiani, anche se l’ipotesi più probabile è che si tratti dei missili Hellfire di produzione americana.

Tuttavia, prima di poter prendere ufficialmente avvio, il piano della difesa deve ricevere il via libera definitivo delle Commissioni parlamentari competenti, in linea con quanto previsto dall’art. 536 del Codice dell’ordinamento militare.

L’ipocrisia del governo

Il contenuto dell’ultimo Documento programmatico non fa che confermare l’ipocrisia dei governi che si sono succeduti in Italia negli ultimi anni. L’idea di armare i droni ha origini lontane. Nel 2008 e nel 2009, in occasione dei dibattiti alla commissione difesa per l’acquisto dei Reaper, il governo e il rappresentante del ministero hanno assicurato che non c’era alcuna intenzione di dotare i droni di un sistema d’arma, ma le mire dell’esecutivo si sono dimostrate essere ben altre.

Tra il 2010 e il 2011 l’Italia ha presentato al governo degli Stati Uniti la richiesta per ottenere uno specifico software indispensabile per l’armamento dei Reaper prodotto dall’americana General Atomics, per la cui vendita era necessario il via libera dal Congresso. Nonostante il parere positivo di Pentagono e dipartimento di Stato, l’organo legislativo americano si è opposto per motivi di sicurezza alla richiesta italiana.

Nel 2015 però l’Italia ha presentato di nuovo la domanda ottenendo questa volta l’approvazione del Congresso e avviando così quell’iter per l’armamento dei droni nel quale si inserisce perfettamente il Documento programmatico della difesa.

La trasformazione in sistemi d’arma dei velivoli senza pilota ha importanti implicazioni non solo sulla capacità bellica dell’Italia, ma anche sulla sua postura militare e sul ruolo del paese nello scacchiere internazionale. Come denunciato dall’osservatorio Milex, dal punto di vista tecnico e politico la dotazione di droni armati comporta una flessibilità di impiego bellico infinitamente maggiore rispetto ai tradizionali cacciabombardieri pilotati. Un cambiamento che, come sottolinea la Rete pace e disarmo, richiede un serio e urgente dibattito parlamentare che tenga in considerazione anche l’impegno che l’Italia si è assunta contro la guerra e sancito dall’articolo 11 della Costituzione.

I rischi

La scelta di procedere verso l’armamento dei droni sembra tra l’altro non tener conto del dibattito sempre più acceso sulle criticità che l’impiego di questi sistemi porta con sé. Gli attacchi lanciati dai velivoli senza pilota riducono a zero il rischio di perdite tra i soldati, ma non tengono ugualmente in considerazione le vite dei civili. Sono infatti numerosi i casi di “vittime collaterali” rimaste coinvolte negli attacchi sferrati con droni dagli Stati Uniti nell’ambito della guerra al terrore, in aperta contraddizione con il mito della precisione chirurgica spesso associata a questo tipo di azioni.

L’utilizzo dei droni presenta tra l’altro dei problemi sotto il profilo del diritto internazionale.

A seconda dei casi, le uccisioni mirate possono essere intese come metodo di guerra o come operazioni di polizia e dovranno quindi attenersi al diritto umanitario oppure a quello penale, fatto salvo il rispetto costante per il diritto alla vita. In qualsiasi circostanza, il ricorso alla forza letale deve sempre essere l’ultima soluzione possibile e non il fine ultimo dell’operazione.

A oggi, però, gli stati hanno fornito ben poche informazioni sulle basi giuridiche delle loro politiche, non hanno reso note le salvaguardie adottate per minimizzare i “danni collaterali”, né i meccanismi di accertamento delle responsabilità per eventuali violazioni.

Eppure questi dati sarebbero utili per sfatare il mito dell’efficienza degli attacchi mirati e contrastare il processo di “umanizzazione” della guerra portato avanti dalle amministrazioni americane grazie all’impiego dei velivoli senza pilota e a una riduzione del numero dei soldati sul campo.

In questo modo si è cercato di rendere la guerra più accettabile sotto il profilo dei diritti umani ma, come spiega nel suo ultimo libro lo storico e giurista statunitense Samuel Moyn, questo processo di “umanizzazione” ha reso le guerre quasi invisibili per l’opinione pubblica, che ha quindi smesso di chiedere al governo la totale cessazione delle ostilità, dando allo stesso tempo vita a nuove tipologie di guerra infinite e continuamente espandibili nello spazio. Uno scenario che adesso diventa possibile anche per l’Italia, già attiva con i suoi droni in diverse regioni del medio oriente e dell’Africa.

L’Unione europea

Un altro problema che lo sviluppo e l’impiego dei droni comportano è la diminuzione della distinzione tra settore tra civile e militare, come si evince chiaramente dalla gestione dei fondi europei degli ultimi decenni.

Se si guarda per esempio ai programmi quadro e all’Horizon2020 (2014-2020), è possibile notare come l’Ue abbia destinato buona parte delle risorse al settore della ricerca sui droni nel campo della sicurezza, sostenendo così progetti che coinvolgevano almeno un’azienda dell’industria della difesa.

In teoria l’Ue non avrebbe potuto finanziare in questo modo dei progetti militari, ma ha sfruttato il carattere duale – sia civile che militare – delle tecnologie dei droni per far sì che anche gli attori attivi nel settore della difesa potessero beneficiare delle sovvenzioni dell’Unione.

A spingere l’Ue su questa strada sono da una parte il desiderio di migliorare la competitività delle proprie industrie della difesa per vincere la concorrenza di Stati Uniti e Cina, dall’altra il bisogno di accrescere le capacità di difesa e controllo dei confini dell’Unione, un compito che i droni sono ben adatti ad assolvere. Ancora una volta il tutto è avvenuto grazie a investimenti in programmi dual-use, così da aggirare i divieti previsti dai Trattati.

Tra l’altro fino a pochi anni fa l’Ue prendeva le sue decisioni in materia di sviluppo di progetti in difesa e sicurezza sulla base delle indicazioni provenienti da un Gruppo di Personalità di cui facevano parte anche le quattro più grandi industrie di armi europee (Eads, Bae Systems, Thales e Leonardo).

Il gruppo è stato sciolto per mancanza di trasparenza e per possibili conflitti di interessi, dato che le compagnie che lo costituivano erano le stesse che ricevevano poi soldi dall’Ue per lo sviluppo di progetti di cui sponsorizzavano l’adozione.

 

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