Lettrici e lettori di Afriche, ciao a voi. In questo nuovo numero segnalo un percorso accidentato quanto interessante di dialogo con i jihadisti che i leader delle comunità locali, stremati da anni di guerra e di incapacità dei governi e dei presidi militari occidentali, hanno avviato dal 2019 in Burkina Faso. A seguire un pezzo sulla pesantissima situazione che grava sulle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo, aggravatasi nelle ultime settimane a causa di scontri tra M23 e truppe governative che hanno portato Kinshasa a dure prese di posizione nei confronti del Rwanda. Molto affascinante, poi, il tentativo di due autori, un’italiana e un gambiano, di scrivere un testo decolonizzato sull’Africa per bambini. A chiudere, alcune news dal continente. Buona lettura.

La popolazione del Burkina Faso è stremata. Dal 2015 è vittima di una progressiva penetrazione di milizie jihadiste che hanno preso possesso di ampie aree e costretto 2,3 milioni di persone alla fuga, seminato terrore e portato il paese, così come tutta la fascia saheliana a ridosso, in piena emergenza umanitaria, con alcune aree in cui l’80 per cento della popolazione soffre la fame. 

Ma la situazione in cui versano milioni di burkinabé è anche il risultato dell’inefficienza dei governi succedutisi e dei supporti militari garantiti da Francia e truppe occidentali in operazioni quasi decennali che si sono rivelate un totale insuccesso a dispetto di un dispendio spaventoso di fondi. Negli ultimi anni, la disperazione ha condotto comunità locali a pensare una propria strategia, slegata da quelle decise a Ouagadougou, nel tentativo di riportare le proprie zone se non alla pace a una parvenza di normalità.

I leader riconosciuti delle comunità di cittadine e villaggi in cui la presenza dei jihadisti è più radicata e massiccia, hanno deciso di intavolare un dialogo diretto con i capi delle milizie islamiche.

Primi tentativi di dialogo nel 2019

Quando, a partire dal 2019, i primi tentativi cominciarono tra mille perplessità e ostacoli, a concretizzarsi, il governo centrale dell’epoca, sostenuto da tutti gli attori stranieri presenti sul territorio, fece di tutto per delegittimarli. La posizione ufficiale di Ouagadougou e di tutti i paesi occidentali presenti in Burkina Faso, è stata improntata per anni al confronto militare al grido di «nessun dialogo con i terroristi». Ma da quando nel gennaio scorso, con l’appoggio esterno della Russia, il Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione ha deposto il presidente Kaboré e preso il potere designando il tenente colonnello Paul-Henri Damiba a capo della giunta golpista, la posizione del governo sul dialogo è cambiata.

Damiba ha imposto da subito una nuova strategia che combina le operazioni militari con il negoziato e ha fatto capire che i tentativi delle comunità locali di dialogo con i jihadisti sono una possibile via da percorrere. «Il governo», ha dichiarato in una recente intervista a The New Humanitarian Yéro Boly, ministro della Coesione sociale e della riconciliazione nazionale, «si è reso conto che i gruppi armati volevano comunicare con i capi tradizionali, imam o rappresentanti di famiglie influenti. Abbiamo capito che la comunicazione avveniva tra loro al fine di portare la pace. Così abbiamo deciso di mettere in atto un coordinamento a livello del mio ministero».

La strategia, tra passi indietro e recrudescenze, così come i rifiuti radicali opposti in alcuni casi dai jihadisti alle richieste di aprire le scuole o di favorire il passaggio di aiuti umanitari, sta avendo qualche risultato. In alcune zone, i terroristi hanno permesso ai nuclei famigliari di far rientro nelle proprie case e riprendere a coltivare e allevare. In altri hanno acconsentito alla riapertura di scuole e attività sanitarie, in altre ancora hanno lasciato che le attività ripartissero imponendo però l’applicazione della shari’a. Un aspetto cruciale è rappresentato dal tentativo di sdoganamento dei terroristi e la fuoriuscita dal “bush” che rappresenta per molti di loro uno stato mentale oltre che una condizione fisica.

Sdoganare i terroristi

Il recente incontro a Ouagadagou tra il leader della cittadina di Djibo e uno dei capi più influenti del jihad burkinabè, Jafar Dicko, fratello del fondatore della prima cellula del paese, apre minimi spiragli di luce nel buio oscurantista in cui è precipitato il Burkina Faso. La strategia fa leva anche sul sentimento patriottico e sul fatto che tra terroristi e comunità locali ci sono legami, in alcuni casi parentele vere e proprie.

«Attualmente», ha dichiarato di recente a France 24 François Zoungrana, comandante dell’Unità di intervento speciale della gendarmeria nazionale, «il nemico è composto essenzialmente da cittadini burkinabé e molto spesso è invisibile e confuso con la popolazione. Questo elemento ci costringe a ripensare il modo di condurre la guerra».

La novità nel metodo, con l’irruzione sulla scena di leader delle comunità locali e l’apertura di canali di dialogo, sta avendo un effetto domino. Altri stati saheliani stanno pensando a percorsi simili. In Niger e in Mali sono stati avviati colloqui con i leader jihadisti e la Nigeria ha innescato processi di riabilitazione di terroristi di Boko Haram  che mirano a farli uscire dalla clandestinità e puntano sulla loro giovane età per convincerli a intraprendere una nuova vita.

Al di là dei risultati a breve termine, resta la novità di un approccio a cui si stanno piegando sempre più governi trascinati dalle comunità locali, estenuate da anni di guerra atroce e da fallimenti clamorosi.

Tensioni tra Congo e Rwanda

La Repubblica Democratica del Congo (Rdc) adotta una linea dura con il Rwanda. La scorsa settimana ha bloccato tutti i voli dal paese vicino e denunciato apertamente il coinvolgimento di Kigali nel sostegno al gruppo ribelle M23 nelle regioni orientali. È in quell’area, tormentata da decenni di conflitto latente fomentato dalla presenza di oltre 130 milizie e dall’anarchia pressoché totale in cui versa, che di recente si sono verificati intensi combattimenti tra il famigerato M23 e forze governative. Nel giro di pochi giorni, come sostiene l’Unhcr, oltre 72mila sono dovute fuggire, un 10 per cento delle quali è approdata in Uganda, paese che accoglie già più di 1,5 milioni di rifugiati.

I nuovi sfollati, vanno ad aggiungersi ai circa 5,6 milioni di profughi  interni: la più estesa migrazione forzata interna di tutta l’Africa.

Kinshasa accusa da tempo il Rwanda di effettuare incursioni nel proprio territorio e di appoggiare gruppi armati. Le relazioni tra i due paesi avevano iniziato a distendersi dopo l’insediamento del presidente della Rdc Felix Tshisekedi nel 2019, ma la recente recrudescenza della violenza dell’M23 ha riacceso le tensioni. Secondo un rapporto dell’Onu, è il il Rwanda stesso ad aver creato e a gestire l’M23 che, nel 2012, anche se brevemente, arrivò addirittura a conquistare Goma, capitale del Nord Kivu.

Il peggioramento della situazione sta letteralmente mettendo in ginocchio un’area tra le più sconvolte del pianeta dove scontri armati, saccheggi, rapimenti e stragi sono letteralmente all’ordine del giorno. Una delle zone più colpite è quella a ridosso di Rutshuru. È esattamente qui che il nostro Ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo, trovarono la morte il 22 febbraio 2021.

Si sperava che quel tragico evento portasse ad assicurare alla giustizia mandanti, esecutori e fiancheggiatori e conducesse a una maggiore consapevolezza attorno a questa area tormentata al fine di moltiplicare sforzi internazionali e favorire distensione. Più di un anno dopo, non si è giunti praticamente ad alcun risultato significativo nelle indagini mentre le popolazioni locali continuano a vivere nel terrore quotidiano, nell’oblio generale.

Welcome Direzione Sud

di Marica D’Amico e Faburama Ceesay, illustrazioni di Sapin Makengel

Camilla e Kalifa, italiana lei, gambiano lui, sono i due bambini protagonisti di un viaggio unico ed emozionante. Insieme ai loro inseparabili giochi attraverseranno il Mediterraneo, partendo dalla Sicilia, verso alcuni paesi africani. Dal Marocco al Gambia, dal Rwanda alla Tanzania e alla Costa d’Avorio, dalla Repubblica Democratica del Congo all’Eritrea alla scoperta di usi, costumi, religioni, cibi, luoghi, lingue, persone e animali. “Welcome direzione sud!”, con una narrativa coinvolgente e interattiva, è un formidabile strumento didattico e pedagogico che offre tantissimi spunti di riflessione verso un percorso educativo multiculturale e rappresenta il modello di una narrazione dell’Africa decolonizzata, fruibile fin dalla tenera età. Dopo un tour in Sicilia, a Torino, Bologna e Alessandria, il libro approda a Roma, Museo Pigorini, il 3 e il 4 giugno, in occasione di Afro Mali Exhibition, dove verrà presentato al pubblico.

NEWS DAL CONTINENTE

  • REPUBBLICA  CENTRAFRICANA:

Lo scorso 27 maggio, l’Assemblea nazionale della Repubblica Centrafricana ha votato per acclamazione la legge che abolisce la pena di morte. La misura attende ora di essere promulgata ufficialmente dal capo dello stato, Faustin Archange Touadéra. La pena capitale, nel paese, era sospesa de facto dall’ultima esecuzione avvenuta nel  1981. Ma questa scelta contro la violenza di stato assume un significato simbolico in un paese dilaniato da anni da un conflitto durissimo che attende di voltare definitivamente pagina. L’abolizione segnala un trend africano e arriva dopo quella del Ciad nel 2020 e della Sierra Leone nel 2021.

  • NIGERIA:

Dramma della povertà nel sud della Nigeria. Almeno 31 persone sono state travolte e uccise mentre decine sono rimaste ferite in occasione di un raduno organizzato da una chiesa pentecostale per distribuire beni di prima necessità alla popolazione,  nello stato i Rivers. Migliaia di persone si erano addensate a ridosso dell’edificio addirittura dalla notter precedente,  spinte dalla fame e dall’indigenza. Decine di individui, molti dei quali, donne e bambini, sono rimaste letteralmente schiacciati.

  • SUDAN:

L’attivista sudanese Amira Osman Hamed ha vinto il premio Front Line Defenders dedicato ai difensori dei diritti umani a rischio. Ingegnere quarantenne, da sempre impegnata per i diritti delle donne in Sudan, è stata arrestata per la prima volta nel 2002 per aver indossato i pantaloni e nel 2013 per essersi rifiutata di coprire i capelli. A gennaio, invece, è stata trattenuta per aver parlato contro il governo militare salito al potere dopo il golpe dello scorso ottobre. Il prestigioso premio, accende un riflettore utile sulla situazione dei diritti umani in Sudan, precipitata nuovamente a seguito del colpo di stato, e da’ impulso alla società civile capace nel 2019 di rovesciare Omar al Bashir, uno dei peggiori dittatori della storia contemporanea, e  dare vita a un processo democratico interrottosi a ottobre.

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