Dalla caduta di Gheddafi una sola cosa rimane uguale nel caos libico: l’ambizione di contare di Khalifa Belqasim Haftar. Dopo l’annuncio di Saif al-Islam Gheddafi di volersi presentare alle presidenziali di dicembre prossimo, martedì scorso anche il generale ha annunciato la sua candidatura. Haftar è l’uomo di tutte le sconfitte eppure rimane sempre in piedi, convinto che la storia libica dovrà necessariamente passare da lui.

È stato amico di tutti, di Gheddafi, degli americani poi dei francesi, infine dei russi e sempre degli egiziani. Quando nel 1987 il rais lo inviò a guerreggiare per la banda di Aozou contro i ciadiani, Haftar perse malamente e venne fatto prigioniero.

Fu un’onta per Gheddafi che lo accusò di averlo tradito. Al suo rilascio il generale sconfitto dovette cercare rifugio altrove perché a Tripoli lo attendeva il plotone di esecuzione.

Venne accolto dagli Stati Uniti, allora acerrimi nemici del rais libico. Dalla Virginia in cui si stabilì per 20 anni, si vociferava che avesse raccontato tutto ciò che sapeva del regime e dei suoi segreti al Pentagono e alla Cia, anche se non pare che ciò sia stato molto utile. Si sussurrava anche di attentati e azioni armate.

In realtà Haftar non sapeva molto e non aveva granché da offrire: Gheddafi teneva lontani quasi tutti dalla cerchia ristretta, affidandosi per la sua difesa, com’è noto, a mercenari tuareg e amazzoni. Washington smise di insistere e su Haftar calò il silenzio.

Una mossa geniale

Le rivoluzioni arabe del decennio scorso, però, sono state la possibilità di risorgere dal cono d’ombra in cui era finito. Con l’inizio dell’insurrezione Haftar torna in Libia e si unisce ai ribelli. Tuttavia quasi nessuno si fida di lui e l’uccisione di Gheddafi lo rigetta nell’oscurità fino al febbraio 2014 quando alla tv fa un proclama patriottico anti-islamista.

Abilmente il generale ha fiutato il vento e vuole intercettare l’opposizione ai fratelli musulmani, vincitori delle elezioni del 2012. Originario della Cirenaica, riesce a saldare attorno a sé tutti gli scontenti che contestano il governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu ma in mano alle milizie islamiste.

Così facendo divide di nuovo la Libia: la sua operazione militare (chiamata Karama, dignità) fa scattare una seconda guerra civile. Nel marzo del 2015 l’assemblea di Tobruch lo nomina comandante dell’esercito nazionale libico e Haftar fissa lo stato maggiore a Bengasi. Anche se tale esercito in realtà non esiste (è una coalizione di milizie grandi e piccole di diversa provenienza, inclusi militanti salafiti dell’oriente libico), simbolicamente si tratta di una mossa geniale: il generale diviene l’incarnazione della lotta anti-islamista sostenuta dall’Egitto di al Sisi, che a sua volta ha cacciato dal potere i fratelli musulmani.

Il colpo di coda

All’apice della sua fama Haftar si auto-promuove feldmaresciallo e inizia la sua azione contro il premer tripolino Fayez al Serraj. Haftar pensa di avere buone carte da giocare e punta sull’accordo con i francesi, sulla relazione con i russi e sul sostegno di emiratini e sauditi.

Il neo-maresciallo è abile coi media e riesce a costruirsi un’immagine di uomo forte mentre Serraj viene dipinto come debole, ostaggio di anarchiche milizie islamiste. Pur con tutto il sostegno che ha, l’annunciata vittoria non arriva. Ogni operazione militare contro le milizie di Tripoli e Misurata fallisce, incluso l’attacco a sorpresa contro la capitale dell’aprile del 2019, quello decisivo.

È una mossa azzardata: il maresciallo non ha nemmeno avvisato i suoi alleati francesi. I turchi rispondono all’appello di Tripoli e Haftar ancora una volta é costretto a ritirarsi: è la sua ultima sconfitta. Nei mesi successivi la sua stella sembra cadere ma dal maresciallo c’è da aspettarsi ogni colpo di coda. Quando a Ginevra, grazie all’Onu, si giunge finalmente ad un accordo tra le due assemblee (Tobruch e Tripoli) per tenere le elezioni a fine 2021 e l’istituzione di un governo ad interim, Haftar si fa risentire criticando molti aspetti della trattativa.

La candidatura

Ancora una volta si fa portavoce dei delusi e di chi è rimasto fuori dal negoziato. Secondo lui non ci sono ancora le condizioni per una vera elezione generale nel paese: così dicendo sa anche di affermare ad alta voce ciò che pensa una buona parte della comunità internazionale. Nel frattempo, approfittando del caos che regna a Tripoli, ha riorganizzato le sue truppe conquistando alcune posizioni a sud nella regione del Fezzan. Minaccia di chiudere una parte dei pozzi di petrolio, la linfa vitale che ancora tiene in piedi il paese.

Il governo nato a Ginevra con l’appoggio delle Nazioni Unite non lo ama ma deve negoziare con lui: anche il neo premier Dbeibeh è costretto a riconoscerne il ruolo. Ottenuta di nuovo l’attenzione dei media, e pur rimanendo critico sul piano dell’Onu, Haftar compie la sua ultima giravolta lanciando la sua candidatura in opposizione a quella del figlio di Gheddafi.

Non sappiamo cosa sarà delle elezioni di questo dicembre ma una cosa è certa: ancora una volta occorrerà tener contro delle opinioni del maresciallo. 

© Riproduzione riservata