Nonostante i tentativi intrapresi attraverso il dialogo Belgrado-Pristina facilitato dall’Unione europea e avviato nel lontano 2011, la normalizzazione delle relazioni e il conseguente riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia, restano nodi irrisolti che, alla luce della guerra in Ucraina, rischiano di aprire nuovi focolai di crisi. Gli scontri e le proteste di domenica notte a Mitrovica e nel nord del Kosovo, così come le dichiarazioni del presidente serbo Aleksandar Vučić, rischiano di trasformare l’entrata in vigore, disposta dalle autorità kosovare, di due nuovi regolamenti, uno relativo alle targhe automobilistiche e un altro ai documenti di viaggio per i visitatori provenienti dalla Serbia, in un pericoloso espediente in grado di aggiungere ulteriore instabilità alle porte dell’Europa. Dal primo agosto sarebbero infatti dovute entrare in vigore delle norme, duramente contestate dal presidente Vučić e dalla minoranza serba che avrebbero disposto, per i viaggiatori in arrivo dalla Serbia, lo scambio dei loro documenti rilasciati dalla Serbia con nuovi documenti di identità di ingresso-uscita emessi da Pristina, validi per tre mesi. Inoltre, sempre dal primo agosto, le autorità kosovare avrebbero richiesto la sostituzione delle targhe automobilistiche rilasciate dalle autorità serbe con quelle emesse dal Kosovo, con l’acronimo Rks, Repubblica del Kosovo.

La disputa dietro l’acronimo

Foto AP

Proprio nell’acronimo utilizzato si nasconde il senso più profondo della storica disputa: l’indipendenza del Kosovo, che Belgrado non riconosce. I funzionari del Kosovo hanno insistito sul fatto che si tratterebbe di attuare misure di reciprocità, considerando che la Serbia applica analoghe disposizioni che prevedono per le targhe Rks in arrivo dal Kosovo l’obbligo di sostituzione alla frontiera con le targhe Ks (Kosovo), previa apposita autorizzazione (3,5 euro per sessanta giorni).

La polizia kosovara avrebbe iniziato a chiudere alcuni valichi di frontiera con la Serbia a causa dei blocchi, consentendo il passaggio delle vetture con targa kosovara. Tali azioni, così come già accaduto nell’ottobre del 2021 sempre a causa dell’introduzione della normativa di modifica delle targhe, hanno determinato proteste e blocchi stradali vicino a due importanti valichi di frontiera con la Serbia, da parte della minoranza serba.

Il presidente Vučić ha invitato la controparte kosovara a evitare provocazioni che potrebbero portare a uno scontro armato e ha ribadito che i serbi non tollereranno altre persecuzioni. «Cercheremo la pace, ma lasciatemi dire che non ci arrenderemo».

La Serbia non è un paese che si può sconfiggere facilmente come lo era ai tempi di Milosevic. Ad alimentare la preoccupazione per una possibile escalation si sono aggiunte nella giornata di domenica sirene d’allarme, spari e spostamenti non confermati di truppe a ridosso della linea di demarcazione tra Serbia e Kosovo.

Momenti di tensione

Nel pomeriggio di domenica la missione Kfor della Nato, operante in Kosovo dal 1999 e attualmente comandata dal Generale di Divisione ungherese, Ferenc Kajari, registrava lo stato di tensione nelle municipalità del nord del Kosovo e dichiarava di esser pronta ad intervenire, in caso di necessità, nel rispetto della risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di sicurezza dell’Onu per garantire un ambiente sicuro e protetto e la libertà di movimento per tutto il popolo del Kosovo.

La missione Kfor, alla quale partecipano circa 630 militari italiani e il cui comando tornerà all’Italia dal prossimo ottobre, ha mantenuto la sua presenza, in particolar modo con i Carabinieri della Multinational Specialized Unit (Msu) operanti per il pattugliamento del ponte di Mitrovica, che divide in due la città tra autorità kosovare e autorità serbe, ed è rimasta in contatto con tutti gli interlocutori, compresi i rappresentanti delle organizzazioni di sicurezza in Kosovo e il capo della Difesa serba.

Sulla crisi è intervenuta duramente anche la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, che ha condannato la decisione di Pristina «di applicare irragionevoli regole discriminatorie nei confronti della popolazione serba dal Kosovo e contro le istituzioni serbe che garantiscono la protezione dei diritti della minoranza dall'arbitrio degli estremisti di Pristina».

La portavoce del ministero degli Esteri russo ha quindi denunciato l’episodio come la riprova del fallimento della mediazione dell'Unione europea.

Il rinvio a settembre

La tensione è in parte rientrata quando in tarda serata, il governo del Kosovo ha recepito l’invito rivolto al primo ministro Albin Kurti e al presidente della Repubblica del Kosovo Vyosa Osmani, dall’Ambasciatore americano in Kosovo, Jeffrey Hovenier, di rinviare di 30 giorni, a fronte di incomprensioni e disinformazioni, l’applicazione delle controverse norme sui numeri di auto e sui passaporti serbi, ottenendo contestualmente l’impegno dei kosovari serbi a rimuovere le barricate.

La decisione di posticipare l’introduzione delle nuove misure, così come la rimozione dei blocchi stradali, è stata salutata positivamente dal vice presidente della Commissione europea e Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, che ha ribadito la necessità di affrontare le questioni irrisolte nell’ambito del dialogo Belgrado-Pristina, funzionale alla normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, passaggio essenziale per l’adesione dei due paesi all’Unione europea.

Un’adesione che, così come per Albania, Repubblica di Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia, vede procrastinarsi ormai da tempo, aumentando delusioni e incertezze circa le prospettive di integrazione europea.

Un’area quella dei Balcani, rispetto alla quale alle ferite delle guerre degli anni Novanta, si è andato ad aggiungere, nella fase di espansione dello Stato Islamico, il fenomeno dei foreign fighters, l’ingresso di molteplici attori, quali monarchie del Golfo e Turchia e, come emerso con particolare evidenza nella fase dell’emergenza pandemica e della cosiddetta diplomazia dei vaccini, il ruolo della Cina e della Russia.

Proprio l’offensiva russa in Ucraina ha infine rafforzato la volontà sia del Kosovo sia della Bosnia ed Erzegovina di aderire all’Alleanza atlantica per preservare la loro sicurezza, anche alla luce dei tentativi destabilizzanti condotti da Mosca in occasione dell’adesione alla Nato del Montenegro e nella Repubblica di Macedonia del Nord, rispettivamente nel 2017 e nel 2020.

© Riproduzione riservata