Continua senza sosta l’azione degli Stati Uniti contro il “complesso militare-industriale” cinese. Come aveva già anticipato il Financial Times nei giorni scorsi, il dipartimento del Tesoro ha confermato nuove sanzioni contro diverse società di biotecnologia e sorveglianza, un importante produttore di droni e diversi enti governativi dello Xinjiang a causa del loro concorso nelle gravi violazioni dei diritti della minoranza uigura che, secondo l’amministrazione statunitense, sarebbero da considerarsi un genocidio. Anche in questo caso le sanzioni inflitte dall’Office of Foreign Assets Control (Ofac) del dipartimento del Tesoro sono fondate sull’ordine esecutivo 13959, così come emendato dal successivo 14032.

Le otto società sanzionate sarebbero coinvolte nelle attività di sorveglianza relative alla profilazione delle minoranze etniche e religiose, soprattutto quella musulmana. A causa delle nuove sanzioni sarà proibito ai cittadini e alle società statunitensi acquistare o vendere azioni delle società sanzionate.

Le otto società indicate nella decisione statunitense sono: Cloudwalk Technology Co., Ltf.; Dawning Information Industry Co., Ltd; Leon Technology Company Limited; Megvii Technology Limited; Netposa Technologies Limited; SZ DJI Technology Co., Ltd.; Xiamen Meiya Pico Information Co., Ltd e Yitu Limited. Si tratta dell’ultimo capitolo della saga sulla discriminazione high-tech che le organizzazioni non governative attive per i diritti umani denunciano ormai da anni e che solleva la necessità di una riflessione globale sulla transizione digitale e la protezione dei diritti fondamentali.

Esportare la repressione

Le soluzioni per la sorveglianza sviluppate in Cina sono infatti esportate in altri paesi con governi autoritari mediante la duplicazione di quello che un rapporto di Human Rights Watch ha chiamato l’«algoritmo della repressione». La tenaglia istituzionale sullo stato nazionale di sorveglianza cinese si sta quindi stringendo, non solo per opera del governo americano. Proprio la scorsa settimana, il portavoce dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite ha annunciato che, a breve, sarà reso pubblico un rapporto sulle violazioni dei diritti della minoranza musulmana nello Xinjiang.

Il 16 dicembre quattro relatori speciali delle Nazioni unite (Nils Melzer; Fionnuala Ní Aoláin, Mary Lawler e Fernand de Varennes) con un duro comunicato hanno criticato la decisione della Corte di cassazione del Marocco di concedere l’estradizione di Yidiresi Aishan, cittadino cinese di religione musulmana e appartenente alla minoranza uigura. Aishan è un attivista per i diritti umani accusato dal governo di Pechino di essere membro di un gruppo terrorista legato alla minoranza musulmana.

Secondo i relatori dell’Onu l’estradizione non terrebbe conto dei potenziali rischi di tortura, detenzione arbitraria e altri trattamenti disumani e degradanti a cui sono regolarmente sottoposti gli appartenenti alla minoranza uigura.

In precedenza, rappresentanti delle Nazioni unite avevano già definito come «profondamente inquietante» il rapporto del tribunale di Londra della scorsa settimana, che ha confermato le accuse di genocidio nei confronti di Pechino. All’azione delle istituzioni si aggiungono le rivelazioni e le inchieste della stampa. Secondo un’inchiesta del Washington Post la società cinese Huawei avrebbe fornito al governo cinese la tecnologia impiegata per le attività di sorveglianza sugli uiguri.

Secondo i documenti consultati dal Washington Post, la tecnologia di Huawei consentirebbe di identificare i volti, profilare le persone con opinioni politiche non allineate e monitorare i detenuti nelle carceri. A proposito, Huawei ha riportato un comunicato che «i documenti citati nel rapporto del Washington Post sono stati elaborati e caricati su Huawei Cloud Marketplace da partner che hanno utilizzato template di Huawei. Come altri app store tradizionali, il marketplace è principalmente una piattaforma di scambio di informazioni per i suoi partner. Huawei carica, esamina e rimuove regolarmente i materiali in base ai feedback ricevuti». «Come tutti gli altri principali fornitori di servizi, Huawei fornisce servizi di piattaforma cloud conformi agli standard comuni del settore. Huawei non sviluppa né vende sistemi destinati a un gruppo specifico di persone».

Il quadro che emerge dall’azione delle varie istituzioni che si stanno occupando del tema non è certo edificante. Ma è la naturale conseguenza della piena esecuzione delle volontà politiche del Partito Comunista Cinese e della sua volontà di controllo e di dominio sul corpo e sulla mente delle persone. Nessuna opinione dissenziente può essere tollerata in nome dell’“armonia sociale”. Era questa, già nel 2016, la volontà di Chen Quango, allora nuovo segretario per lo Xinjiang del partito che, da subito, decise di aumentare le misure di sorveglianza e repressione contro le minoranze. Tutto nel partito, nulla fuori dal partito. La ragion di partito può allora giustificare le detenzioni arbitrarie, le sterilizzazioni forzate, l’internamento nei campi di rieducazione politica, la sorveglianza di massa.

L’opposizione delle aziende

È proprio contro Chen Quango che, il 9 luglio 2020, gli Stati Uniti hanno deciso ulteriori sanzioni a causa del suo ruolo nelle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. L’altro ieri gli Stati Uniti hanno aggiunto una nuova arma alla lotta contro gli algoritmi della repressione di Pechino. È arrivata l’approvazione definitiva del testo di legge denominato Uyghur Forced Labor Prevention Act, la legge che vieta le importazioni dallo Xinjiang a meno che le aziende riescano a dimostrare che i loro prodotti non siano il risultato dell’uso di lavoro forzato.

L’approvazione è avvenuta nonostante le pressioni di alcuni grandi marchi come Nike, Coca-Cola ed Apple, che hanno cercato in tutti modi di rendere più flessibili i criteri della legge che blocca l’importazione di beni prodotti in Cina.

La legge è ora alla firma del Presidente Biden. La portata di quanto accade in Xinjiang e la risposta che il mondo sarà in grado di offrire non riguardano solo le questioni interne cinesi. Prove dell’esportazione del modello cinese legato agli algoritmi della repressione si sono ormai accumulate ed è bene che i governi occidentali e le istituzioni sovranazionali si rendano pienamente conto che quello che accade in Cina non resta in Cina. Proprio come la pandemia.


Aggiornamento 18 dicembre, ore 11:21: Una prima versione di questo articolo non conteneva la posizione di Huawei che è stata poi aggiunta. 

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