Scenari in cui droni, carri armati, sottomarini o robot si aggirano senza il diretto controllo umano in cerca dei loro obiettivi sono meno distopici di quello che si pensa. Armi simili hanno già fatto la loro prima comparsa nei teatri di guerra, come dimostra il caso dello sciame di droni impiegato dalla Turchia in Libia contro le forze del generale Khalifa Haftar. Ma se lo sviluppo di questi sistemi autonomi è ormai a buon punto, lo stesso non può essere detto per la loro regolamentazione a livello internazionale.

Da otto anni i leader mondiali discutono dei rischi etici, morali e legali che l’utilizzo di tali armi comporta, ma senza grandi risultati. Anche l’ultima conferenza per la revisione della Convenzione sulle armi convenzionali (Ccw), tenutasi dal 13 al 17 dicembre a Ginevra,  non ha portato significativi cambiamenti a causa dell’opposizione di Stati Uniti, Regno Unito, Russia, Cina, India e Israele.

Tutti paesi che continuano a investire nello sviluppo di armi autonome e che temono che una politica restrittiva possa trasformarsi in un vantaggio per i loro avversari o per entità non-statali. Gli Stati Uniti si sono detti favorevoli unicamente all’introduzione di un codice di condotta non vincolante che inviti i governi ad assumere un atteggiamento responsabile nei confronti della creazione e dell’impiego di certi tipi di armi, ma nulla di più.

D’altronde gli Usa hanno investito 3,7 miliardi per lo sviluppo dei sistemi autonomi e li hanno già utilizzati ad agosto all’interno di un’esercitazione tenutasi nei dintorni di Seattle. La posizione statunitense, però, non è condivisa da tutti.

Chi si oppone

Di recente, la Nuova Zelanda si è unita ai 66 Paesi che hanno esplicitamente richiesto un nuovo strumento giuridicamente vincolante per le armi autonome e anche l’Italia, a inizio conferenza, ha sostenuto l’approvazione di un mandato per la sua elaborazione. Una posizione che rispecchia quella già assunta dai cittadini italiani, contrari allo sviluppo di armi autonome. Come rivelato dall’ultimo sondaggio di opinione realizzato dall’Istituto di ricerche internazionali archivio disarmo su un campione rappresentativo della popolazione, oltre i 2/3 degli intervistati si sono espressi contro i sistemi d’arma autonomi.

Ma a spingere per l’adozione di norme vincolanti sono anche le associazioni che hanno aderito alla coalizione Stop killer robots, di cui fa parte anche l’italiana Rete pace disarmo, nonché scienziati, esperti del settore e la Croce rossa internazionale. Lo stesso segretario delle Nazioni Unite, António Guterres, ha definito le armi autonome «politicamente inaccettabili e moralmente ripugnanti» e chiesto la loro messa al bando, invitando le parti a trovare presto a un accordo.

La possibilità che un’arma possa avere potere di vita o di morte su un essere umano risulta problematico dal punto di vista etico-morale, ma pone anche dei problemi sotto il profilo giuridico per quanto riguarda la proporzionalità e la responsabilità degli atti compiuti. Inoltre, l’impiego di questi sistemi abbassa ulteriormente la soglia del ricorso alla forza, come sta già succedendo con i droni, e rischia di dar vita una nuova corsa agli armamenti.

Nel lungo periodo si potrebbe tra l’altro assistere a una proliferazione delle armi autonome tra gli attori non statali o nei paesi in cui i diritti umani sono sistematicamente violati. Senza contare che qualsiasi intelligenza artificiale, anche la più elaborata, può commettere errori nell’analisi di un determinato scenario, causando così la morte di civili innocenti.

Il caso cinese

La dimostrazione di quanto sia indietro la legislazione internazionale su un tema così delicato come quello delle armi autonome arriva dalla Cina. Nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a undici istituti di ricerca sulle biotecnologie accusati di star sviluppando degli strumenti per «controllare la mente» e condizionare così il comportamento umano.

Gli Usa ritengono anche che Pechino stia investendo nella creazione di speciali interfaccia che consentano di inviare comandi attraverso il pensiero. Come riportato dai media americani, non è chiaro che tipo di armi esistano già in Cina, ma i leader militari nel corso degli anni hanno più volte fatto menzione di «capacità offensive» ottenute grazie alle biotecnologie comprendenti il «controllo delle mente» e in grado di compiere «attacchi genetici specifici”. Questi sistemi, sempre secondo gli Usa, sarebbero già stati utilizzati contro gli uiguri, la minoranza musulmana oggetto di repressione da parte di Pechino.

Se già l’impiego di droni autonomi in Libia ha rappresentato il superamento di una linea rossa, le notizie provenienti dalla Cina dovrebbero essere un ulteriore campanello d’allarme per la diplomazia internazionale. Intervenire prima che questi sistemi siano completamente operativi permetterebbe di scongiurare gli scenari peggiori, ma il divario tra sviluppo tecnologico e legislazione è sempre più difficile da colmare.

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