Non c’è immagine che renda meglio lo psicodramma dei socialisti europei di quella restituita dalla penisola iberica: in Spagna, il trionfo del premier Pedro Sànchez, fresco di accordo con i separatisti catalani che gli consentirà di restare alla Moncloa per un altro mandato. In Portogallo, le dimissioni del primo ministro Antonio Costa, arrivate come un fulmine a ciel sereno a seguito di uno scandalo di corruzione che ha travolto il suo entourage.

È un’immagine emblematica del punto in cui si trova la famiglia socialista europea a pochi mesi dalle elezioni per il rinnovo del parlamento europeo. Da un lato, una sinistra che, forte della propria identità, può contrastare e vincere il vento delle destre che soffia forte in Europa. Dall’altro, lo spettro della corruzione che torna ad agitare i socialisti dopo il Qatargate, lo scandalo che nel dicembre dello scorso anno ha travolto il parlamento europeo.

Il terremoto politico, tutto consumato all’interno della famiglia socialista, aveva portato alla destituzione della vice presidente dell’Eurocamera, Eva Kaili, e alla sua espulsione dal gruppo parlamentare, insieme a quella degli eurodeputati Marc Tarabella e Andrea Cozzolino.

E sebbene l’inchiesta sembra giacere per il momento su un binario morto e il clamore delle indagini si sia affievolito, il trauma è ancora lì per restare.Sempre in Spagna, a Malaga, dove in questi giorni si tiene il congresso del Partito socialista europeo, si è abbattuta l’ultima delle tempeste in casa progressista, la richiesta di espellere il premier albanese, Edi Rama, reo di aver siglato l’intesa con Giorgia Meloni sulla gestione dei flussi migratori.

Un’alleanza con l’estrema destra indigesta e intollerabile per i socialisti che chiedono la testa dell’artista prestato alla politica, come suole definirsi Rama, rimasto a lungo uno dei principali interlocutori della sinistra italiana. Procedere in questa, per ora improbabile, direzione per il Pd rappresenterebbe un forte segnale di discontinuità rispetto a un passato troppo indulgente davanti alla regressione democratica dell’Albania di Edi Rama.

Il caso slovacco

Il caso del premier albanese non è il solo ad aver scosso la sinistra europea. Solo poche settimane fa, un’altra testa era rotolata sulla ghigliottina socialista, quella del neo eletto primo ministro slovacco, Robert Fico, più vicino a Budapest e Mosca che a Bruxelles.

Una decisione dovuta, l’espulsione, ma fuori tempo massimo, quella del gruppo dei socialisti e democratici europei (S&D), se si considera la parabola di Fico, costretto a dimettersi cinque anni fa in seguito alle proteste che seguirono all'omicidio del giornalista investigativo Jan Kuciak, noto per le sue inchieste sul primo ministro e il suo entourage, e della fidanzata, Martina Kušnírová.

E il suo ritorno al potere non promette nulla di buono: uno dei primi provvedimenti firmati dal leader filorusso è stato, come promesso in campagna elettorale, lo stop al trasferimento delle armi in Ucraina.

Colpi e contraccolpi che mettono a nudo le sfide e le debolezze che la sinistra dovrà affrontare per potersi presentare all’appuntamento elettorale di giugno. Quella identitaria, prima di tutto. Come dimostra la vittoria di Sanchez in Spagna, riappropriatasi di temi – dall’ambiente, alla scuola, ai diritti sociali – su cui la sinistra è stata vampirizzata da populismi e sovranismi.

Una sinistra che non chiuda gli occhi davanti a questioni cruciali come l’erosione dello Stato di diritto, degli standard democratici, della tutela dei diritti umani che si allarga a macchia d’olio all’interno stesso dell’Ue e anche al di qua della cortina di ferro.

Leadership impalpabile

Speculare all’identità, c’è la questione della mancanza di leadership. Le dimissioni di Costa, tra i papabili alla presidenza del futuro Consiglio europeo, complicano il quadro, mostrando ancora una volta la mancanza di alternative in casa socialista.

Una questione già emersa negli ultimi tempi riguardo all’individuazione dello Spitzenkandidat, il candidato alla presidenza della Commissione designato dai singoli gruppi parlamentari. Dei nomi tirati fuori dal mazzo - l’ex vice presidente della Commissione europea, Frans Timmermans, candidato premier alle elezioni in Olanda del 22 novembre, e l’ex premier finlandese, Sanna Marin, arruolata ora alla Tony Blair Institute for Global Change – è ancora in pista la vice presidente del Parlamento europeo, la socialista tedesca, Katarina Barley, che non vanta però le credenziali dei suoi colleghi socialisti, soprattutto sulla scena internazionale.

L’ennesima debolezza che impone ai socialisti un deciso cambio di rotta.

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