Quando Volodymyr Zelensky dice di non avere «alcun dubbio» che anche dopo Boris Johnson il Regno Unito confermerà il suo «straordinario sostegno» all’Ucraina, descrive uno scenario assodato. E c’è di più: tra ex militari, ministri della Difesa e degli Esteri, la competizione per la leadership del Partito conservatore, e di conseguenza la scelta di una nuova guida per il governo britannico, promette di consegnare un premier anche più «falco» di Johnson. Il leader dimissionario ha provato a utilizzare il suo ostentato sostegno a Kiev come uno scudo contro il crollo di popolarità interna, con l’esito paradossale di diventare il leader più popolare in assoluto non per i britannici ma per gli ucraini. Il partito conservatore sotto la nuova guida seguirà lo stesso solco, con il vantaggio di una maggiore credibilità, visto che quella di Johnson era logorata dagli scandali. «Clown» è non a caso l’epiteto usato per dileggiarlo, da sconfitto e dimissionario, dagli oligarchi vicini a Putin.

Mostrarsi compatti

L’unica reale ambiguità sul ruolo che il Regno Unito può svolgere nella guerra in Ucraina va cercata più nel recente passato che nel futuro prossimo: sia la campagna per Brexit, che è stata il grimaldello politico per eccellenza di BoJo, che il Partito conservatore, sono stati sostenuti anche attraverso finanziamenti e connessioni con la Russia. Alla luce delle tante ambiguità da far dimenticare, i candidati alla guida del partito e del paese hanno tutto l’interesse a esibire prese di posizione dure verso Mosca. Inoltre già con Johnson l’allineamento con gli Stati Uniti è servito a rilanciare un ruolo globale del Regno Unito, potenzialmente compromesso dopo il divorzio da Bruxelles.

Il volto dello scontro

È febbraio ma l’invasione dell’Ucraina non è ancora partita, quando Elizabeth Truss si trova a Mosca e si fa notare per l’attitudine da scontro frontale. «Basta bullizzare l’Ucraina!», le parole di lei. «Venite qui a farci la morale!», la replica del suo omologo russo Lavrov, che la liquida stizzito. Truss, che oggi è nel ventaglio dei papabili nuovi leader, è nota ai britannici per le sue posizioni ultraliberiste ed è diventata la figura di spicco degli esteri del Regno Unito di oggi. In occasione dei rimpasti che Johnson ha dovuto fare, prima l’autunno scorso, e poi a dicembre quando il negoziatore di Brexit David Frost si è dimesso per gli scontri col premier, Truss si è trovata ministra degli Esteri a settembre, e poco dopo le sono state messe in mano anche le relazioni con l’Ue. In questi giorni è indaffaratissima anche sul dossier ricostruzione – asset e finanza quindi, non solo armi – e per l’occasione rispolvera una citazione draghiana: «Per supportare l’Ucraina bisogna fare whatever it takes», tutto quel che si può.

Sunak e il dopo Johnson

Mentre Truss si proietta dall’era Johnson al dopo, anche l’ormai ex cancelliere dello scacchiere, Rishi Sunak, che martedì ha innescato le dimissioni a pioggia precipitate nella resa politica di Johnson, è nel ventaglio dei concorrenti alla leadership. Sunak lo ha anche formalizzato: non c’è ancora il calendario del congresso dei conservatori, ma ieri il suo video della campagna era già pronto per il lancio, il che lascia pochi dubbi sullo spirito della sua mossa dimissionaria. «Attraversiamo uno dei momenti più duri e serve qualcuno che lo affronti facendo la cosa giusta», dice Sunak nel video, citando «il patriottismo» tra i suoi «valori non negoziabili». In realtà anche lui non è stato immune da scandali di recente: quello fiscale della sua potente moglie, e quello delle feste durante il lockdown. Ex Goldman Sachs, ruoli (e parenti acquisiti) in finanza e grande industria, Sunak prima ancora che sulla guerra si concentra sui suoi effetti economici. E ha già chiara la ricetta: austerity.

La Difesa e il consenso

Nel giorno dell’addio alla leadership di Johnson, YouGov ha diffuso un sondaggio per mostrare le quotazioni dei possibili successori nella “borsa” del consenso. Ovviamente la rilevazione viene fatta sui numeri che contano in questo momento, e cioè quelli dei membri del partito. Non è detto che la popolarità tra i conservatori coincida con quella nell’elettorato – qualche mese fa ad esempio Truss era la più quotata nel partito e Sunak tra gli elettori – ma è questa che determina chi uscirà vincitore dal congresso.

Bisogna quindi prendere atto che chi si occupa o si è occupato di difesa surclassa gli altri. In testa c’è infatti il ministro della Difesa, Ben Wallace, che gode di questo consenso anche per il suo piglio durante la guerra in Ucraina. E a stretto raggio c’è Penny Mordaunt, che ministra della Difesa lo è stata, fino al 2019. Tom Tugendhat, che è tra i più amati dall’ala moderata del partito, ha alle spalle una lunga carriera militare. Tra i tratti distintivi, la battaglia politica per una posizione più dura contro la Cina, il che nel 2021 ha peraltro fatto finire Tugendhat tra i sanzionati da Pechino.

Tempi interessanti

Se Londra è stata ironicamente ribattezzata «Londongrad» è anche perché nella capitale della finanza gli asset russi sono entrati eccome. Fino a che punto hanno penetrato anche il partito conservatore è stato materia di una battaglia politica accesa anche tra la fine del 2021 e l’invasione dell’Ucraina. I laburisti hanno fatto leva sulle rivelazioni che riguardavano le donazioni di russi, o personaggi legati alla Russia, al partito avversario: dall’estate 2019, quando cioè Johnson ha assunto la leadership, i labour hanno ricostruito circa due milioni di sterline ricevute dai tories.

Con l’inizio della guerra, il Regno Unito di Johnson ha fatto la voce grossa, spedito armi e supporto, promesso protezione a Svezia e Finlandia nella transizione verso la Nato, ha lavorato ai rapporti col fianco orientale dell’alleanza e soprattutto con quello statunitense, di cui è stato grande alleato anche sul versante del patto Aukus per la sicurezza nell’indopacifico e in funzione anti Pechino. Così è stato con Johnson, e così c’è da scommettere che sarà anche dopo.

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