Niente scrupoli. Soldi, tanti. E poi, come minimo venti, se non trenta ore alla settimana; il calcolo viene da fonti esperte. È ciò di cui avrà bisogno Donald Trump per prepararsi ai processi.

Lunedì dalla Georgia è arrivata la più grande batosta giudiziaria, una sfilza di capi di imputazione, e l’accusa di «cospirazione»; non è che uno dei quattro procedimenti penali in corso contro Trump. Ora il repubblicano ha solo un modo – ed è proprio quello che sceglierà – per conciliare la campagna elettorale con la vita da imputato.

Trasformerà i tribunali in palchi, i processi in comizi itineranti. Se le spese legali sottraggono risorse alla campagna, allora che si trasformi il caso giudiziario in propaganda. Serve tempo per prepararsi? Tanto vale che l’arringa sia a portata di elettori.

Finora, se c’è una cosa sulla quale il repubblicano ex presidente, e wannabe presidente ancora, ha dimostrato di essere coerente e veritiero, è quella di essere disposto a tutto. Cronisti e giuristi statunitensi sono alle prese con un inedito gioco dell’oca: può Trump farsi votare anche se viene condannato? Sì. Ma è mai possibile che diventi presidente, se è in carcere? Non è da escludere: quel che è accaduto finora con Trump è talmente inedito che pure i massimi esperti di diritto costituzionale americani sono a corto di certezze sul futuro.

«Organizzazione criminale»

Tra tutti i filoni giudiziari, quello della Georgia – che riguarda il tentativo di dirottare i risultati elettorali del 2020 – è il più ingombrante per una sfilza di ragioni. Questi 13 capi d’accusa si aggiungono ai 78 pendenti dagli altri tre procedimenti (sulla pornostar Stormy Daniels, sui documenti di Mar-a-Lago e sulle interferenze elettorali); il carattere statale di questo procedimento fa sì che sia più difficile per Trump sbarazzarsene anche qualora sia rieletto, dunque la strategia già seguita in passato dai suoi avvocati consisterà nel cercare di spostare il procedimento a un tribunale federale.

I capi d’accusa sono 13 contro Trump, ma 41 nel complesso: stavolta finiscono sbugiardati anche gli uomini del presidente (ex); diciotto suoi sodali, compreso Rudy Giuliani, incluse figure che con Trump hanno svolto compiti importanti alla Casa Bianca, e persino un ex collaboratore del rapper destrorso Kanye West.

Una «organizzazione criminale», come recitano le quasi cento pagine dell’atto di imputazione. Qui dentro finiscono pure tweet e discorsi di Trump come di Giuliani, una “post-verità” che si aggiunge ad altre interferenze assai concrete sul voto: falsi grandi elettori spacciati per veri, forzature di computer e software elettorali, documenti falsi e un rapporto a dir poco problematico coi testimoni.

La procuratrice distrettuale della contea di Fulton, Fani Willis, si è meritata l’epiteto «steely» (tutta d’un pezzo) non solo perché davanti al crimine non molla, ma perché ha inchiodato Trump punto per punto facendo leva su dispositivi normativi che in origine erano concepiti per le gang, le organizzazioni criminali; erano stati poi utilizzati anche per i colletti bianchi. Steely Willis li usa per inquadrare le interferenze elettorali come «cospirazione». E far leva sul “RICO” – il Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act – non è cosa da poco: con così tanti capi d’accusa, significa pene fino a 20 anni di carcere.

Per ironia della storia, era stato proprio Giuliani – prima di diventare il «sindaco d’America» e poi l’avvocato trumpiano – a distinguersi per la lotta al crimine organizzato; una volta era lui, il procuratore «di ferro». Decenni dopo, finisce dalla parte opposta. E siccome la storia è ironica, ma il presente è ancor più beffardo, pare che Trump sia dispiaciuto per lui ma non abbia alcuna intenzione di pagargli le spese legali.

Willis chiede alla “gang” trumpiana di arrendersi entro il 25 agosto, e ha intenzione di processare i 19 tutti insieme.

L’assalto trumpiano

Quanto alle intenzioni trumpiane, sono aggressive. L’ex presidente terrà una conferenza stampa la prossima settimana, ma sul social network che si è creato apposta per sproloquiare senza limiti – “Truth Social” – è impegnato a farneticare su legami cinesi di Joe Biden. E gioca la solita carta, passivoaggressiva, del vittimismo e dei complotti contro di lui: «Questi mostri, tutti controllati e coordinati dal Dipartimento di Giustizia e dai Lunatici della Sinistra Radicale, stanno criminalizzando il discorso politico, un totale SHUTDOWN DELLA DEMOCRAZIA!».

Nel frattempo nella galassia trumpiana c’è chi fa liste di proscrizione ed espone agli attacchi i nomi dei membri del gran giurì di Atlanta: per legge, in Georgia, i nominativi sono pubblici; con tutte le conseguenze del caso. Trump per primo ha già inveito contro Willis – «corrupt! corrotta» – che era al lavoro sulle indagini georgiane da febbraio 2021. E anche la giudice Tanya Chutkan viene bersagliata. «È di parte!, è scorretta!», scrive l’ex presidente – ovviamente in maiuscolo – aizzando i suoi sostenitori.

In tutto questo non arrivano particolari freni dall’establishment repubblicano, anzi: non solo i vertici finiscono citati essi stessi nell’atto di 98 pagine, ma i competitor alle presidenziali temono di inimicarsi simpatizzanti. Trump ha campo libero nel cercare di convincere gli americani che la giustizia non ce l’ha con lui, ce l’ha «con te!».

Nessun finale, tuttavia, è scontato; anche perché sarà chi oggi è indeciso, più che lo zoccolo duro dei supporter, a fare le sorti della Casa Bianca nel 2024.

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