Al summit dei Brics di Johannesburg è stato il giorno di Vladimir Putin, che in videoconferenza ha fatto la sua tirata contro «alcuni paesi irresponsabili» che «provocano le spinte inflazionistiche che pesano in particolare sugli Stati più poveri», mentre «le sanzioni illegittime» imposte dall'occidente «calpestano tutte le norme del libero commercio». Il presidente russo ha fatto anche una apertura al ritorno nell’accordo del grano, «se le nostre condizioni saranno rispettate».

Ma gli occhi degli osservatori internazionali sono sempre puntati sul presidente cinese, Xi Jinping, il capo della potenza egemone che vuole trasformare i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, secondo il fortunato acronimo ideato casualmente da Jim O’Neill, economista di Goldam Sachs Asset Management) in un antagonista del G7 occidentale e sfidare l’egemonia del dollaro. Posizioni velleitarie?

Sono in molti a crederlo anche se la sfida non va affatto sottovalutata perché i cinque rappresentano un quarto del Pil mondiale e il 42 per cento della popolazione globale. Comunque gli occhi degli analisti sono tutti puntati sulle mosse del Dragone anche alla luce dei problemi economici palesati negli ultimi mesi dal gigante asiatico, che cresce meno del previsto, rischia di andare in deflazione, ha una montagna di debiti nel settore dell’immobiliare come segnala la bancarotta a New York di Evergrande, il gigante del mattone cinese, e nasconde i dati montanti della disoccupazione giovanile.

Spostare l’attenzione

Il sistema “export oriented” che ha fatto comunque acchiappare i topi al gatto cinese, secondo la famosa frase Deng Xiaoping, padre dell'apertura cinese al mercato, ma sempre sotto lo stretto controllo politico del Partito comunista, sembra in fase di rallentamento e avvitamento su sé stesso. Un ciclo economico basato sui prezzi bassi di lavorazione si è chiuso e Pechino fa fatica ad aprirne un altro basato su terziario e consumi interni.

Così la tentazione di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla politica estera, sui Brics e sulla sfida alla potenza egemone, gli Stati Uniti, è diventata molto forte a Pechino.

La Cina è forse diventata una “tigre di carta”, per riprendere una frase retorica cara al presidente Mao Zedong usata contro “l’imperialismo americano” ai tempi della Rivoluzione culturale cinese? L’impressione è che dovunque ti giri di questi tempi trovi nuove crepe nel sistema di potere e di sviluppo economico dell’Impero di mezzo.

rtbtrbt5b

Secondo indiscrezioni, i possibili investitori nell'Ipo, l’initial public offering di Arm, la divisione di semiconduttori di Softbank, che ha depositato la documentazione per la quotazione a Wall Street con l'obiettivo di sbarcare al Nasdaq, avrebbero sollevato dubbi e timori sull'esposizione del colosso in Cina. Negli ultimi tre anni, riporta il Financial Times, Arm ha affrontato una serie di difficoltà nel suo fare business in Cina, che genera un terzo dei suoi ricavi.

Arm vuole quotarsi a Wall Street in un momento di crisi dell'economia cinese e di alta tensione politica fra Stati Uniti e Cina sul controllo di una tecnologia vitale come i chip e le terre rare. Non a caso il Segretario al Commercio degli Stati Uniti, Gina Raimondo, ha annunciato che visiterà la Cina dal 27 al 30 agosto. Il suo viaggio programmato sarà il terzo da parte di un alto funzionario americano da quando il segretario di Stato americano, Antony Blinken, si è recato in Cina a giugno, seguito dal segretario al Tesoro, Janet Yellen, e dal rappresentante per il clima, John Kerry.

La Casa Bianca ha mantenuto i dazi ale merci cinesi messi a suo tempo da Donald Trump e sta ponendo limiti per ridurre il commercio con Pechino di tecnologia sensibile come i chip. Alcuni parlano di decoupling americano dalla Cina, altri di derisking: in ogni caso si tratta di un allontanamento che ha fatto perdere lo scorso mese , come segnalato dalla Federal Reserve di Dallas, lo scettro a Pechino di primo partner commerciale degli Usa a favore del Messico e del Canada che lo avevano perso nel lontano 2014.

Scrive acutamente Gideon Rachman, editorialista del Financial Times: «Nonostante i loro problemi, il Giappone e la Corea del Sud sono rimasti paesi stabili e prosperi. La Cina potrebbe scoprire che la propria transizione verso una società che invecchia e che cresce più lentamente è considerevolmente più difficile e turbolenta».

Dunque rispetto al passato, Xi si presenta al vertice di Johannesburg con una maggiore vulnerabilità economica, una debolezza interna che rafforza la proiezione internazionale a caccia di un successo esterno.

I nuovi candidati

Circa 40 nazioni hanno bussato alla porta del gruppo. La questione dell’allargamento divide però l’India di Modi e la Cina di Xi, le due economie più potenti del blocco. Pechino vuole allargare la propria influenza mentre Delhi guarda con sospetto alle intenzioni del suo rivale.

© Riproduzione riservata