Milioni di cinesi hanno seguito ieri in diretta sui social la più avanzata prova di blocco navale e aereo di Taiwan condotta finora dall’Esercito popolare di liberazione (Epl), accompagnata da inni patriottici e dalle analisi di esperti militari.

L’isola e i suoi isolotti vicini alla Cina continentale sono stati circondati da decine di imbarcazioni e caccia con la stella rossa coordinati dal Comando orientale con sede a Nanchino.

Un’operazione (la terza di questo tipo, dopo quelle dell’agosto 2022 e dell’aprile 2023) che rientra nella “nuova normalità” di costante, accentuata pressione militare su Taiwan scattata dopo la visita a Taipei dell’allora speaker della Camera, Nancy Pelosi, il 2 agosto di due anni fa.

Tuttavia quest’ultimo war game, che dovrebbe concludersi oggi, in soli due giorni, evidenzia che Pechino si sta concentrando sulla pianificazione di un assedio, meno complesso di un’invasione e rapido, per prevenire un intervento statunitense a sostegno dell’isola.

Con l’operazione partita ieri – nome in codice “Spada unita-2024A” – l’Epl ha messo sotto tiro, a nord, i centri politici, economici e militari della capitale Taipei e di Nuova Taipei, la costa orientale, per impedire rifornimenti di petrolio e aiuti dall’estero, e quella occidentale che si affaccia sullo Stretto.

Si tratta di manovre che vengono condotte tranquillamente (a una ventina di miglia nautiche dal territorio taiwanese) perché la superiorità militare dell’Epl è schiacciante.

Taipei ha denunciato quella che ha definito una “provocazione” e messo in stato d’allerta le sue difese.

Non solo propaganda

L’esercitazione è scattata tre giorni dopo il discorso d’inaugurazione di William Lai Ching-te, nel quale il presidente ha promesso che proteggerà la sovranità di Taiwan assieme ai paesi democratici.

Per il Partito comunista cinese – per il quale quella che considera una provincia ribelle è l’ultima tessera da aggiungere, dopo Hong Kong (1997) e Macao (1999), al mosaico dell’unità nazionale – le parole di Lai sono inaccettabili.

Anche perché il suo Partito progressista democratico (Dpp), che ha vinto le elezioni del 13 gennaio scorso, non riconosce il “Consenso del 1992”, il compromesso politico secondo cui esiste “una sola Cina” sulla quale entrambe le sponde dello Stretto rivendicano sovranità.

“Spada unita-2024A” ha anzitutto un significato propagandistico: la terza presidenza consecutiva al Dpp ha espresso il rifiuto dei taiwanesi all’ipotesi di “riunificazione”, e così Xi sfoggia i muscoli, per non scontentare l’esercito e i nazionalisti. Non solo, l’ennesimo war game potrebbe alimentare la tensione – già alle stelle dopo la mega rissa allo Yuan legislativo di venerdì scorso – tra le forze politiche in un parlamento nel quale il Dpp (51 seggi) è messo in minoranza dall’alleanza tra i nazionalisti del Kuomintang (52) e il Partito popolare (8), entrambi favorevoli al dialogo con Pechino.

Ma è il quadro più generale, l’evoluzione di medio periodo della questione taiwanese, a destare preoccupazione.

Una spirale da fermare

Infatti, a fronte della apparente determinazione di Xi Jinping a portare a termine la “riunificazione” di Taiwan, si sta accentuando la “emigrazione” della sua principale ricchezza e fonte di indipendenza: la produzione di semiconduttori, che sta prendendo la via degli Stati Uniti e altri paesi amici.

Bloomberg ha rivelato che Tsmc, l’azienda locale leader nei microchip, e Asml, la compagnia olandese che fabbrica i più avanzati macchinari per produrli, avrebbero messo a punto un meccanismo per rendere inutilizzabili tutti i loro strumenti nell’eventualità di una invasione cinese.

Nel frattempo si protrae – nonostante il governo di minoranza – il lungo regno del Dpp, espressione di una società rinnovata, che in settori importanti guarda a occidente e non vuole saperne del socialismo cinese e della sua idea di fare di Taiwan la nuova Hong Kong, da governare secondo il principio “Un paese, due sistemi”.

Al cospetto di questa deriva, nel clima di totale conformismo ideologico promosso da Xi, si registrano poche voci ragionevoli. Zheng Yongnian – influente scienziato politico della “Università cinese di Hong Kong” di Shenzhen – ha suggerito che «anche se c’è una sola possibilità su mille di una riunificazione politica, dobbiamo batterci a tal fine».

Zheng ha ricordato che la stragrande maggioranza dei taiwanesi non è per l’indipendenza, ma per lo status quo, e invitato il governo di Pechino a cercare con Taipei un nuovo accordo sul “Consenso del 1992”.

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