Il nuovo presidente di Taiwan si è insediato ieri ufficialmente durante una cerimonia accompagnata da musica rock, danze aborigene, e locali frecce tricolori, con lui e la sua vice che cantavano facendo il cuore con le braccia sulla testa.

Tutto molto trendy, ma anche un po’ finto, a due giorni dalla gigantesca rissa che ha scosso il parlamento di Taipei, e mentre tra le due sponde dello Stretto aleggia una cupa tensione.

William Lai Ching-te ha pronunciato un discorso dai toni pacati, gli unici possibili per un leader senza maggioranza allo Yuan legislativo e dopo la “tregua” su Taiwan siglata da Joe Biden e Xi Jinping il 15 novembre scorso a San Francisco.

Lai ha illustrato una linea in continuità con quella di Tsai Ing-wen, la collega del Partito progressista democratico (Dpp) che dopo otto anni e due mandati gli ha consegnato un paese politicamente più diviso e con i canali di comunicazione con Pechino interrotti.

Ha ripetuto per 23 volte la parola «pace», definita «il nostro obiettivo e l’unica opzione», e ha invitato la Repubblica popolare cinese (Rpc) a riprendere gli scambi di turisti e studenti con Taiwan.

Ma neppure Lai riconosce il “Consenso del 1992”, il compromesso rifiutato da Tsai che, nel 2016, ha portato alla rottura del dialogo tra Taipei e Pechino. Nelle relazioni con la Cina l’ex vice di Tsai ha proposto i suoi «quattro pilastri di pace»: rafforzamento delle capacità di difesa, miglioramento della sicurezza economica, relazioni tra le due sponde dello Stretto stabili e basate su princìpi, diplomazia fondata sui valori. Le opposizioni sono d’accordo sul primo punto, ma per il resto vorrebbero parlare con Pechino senza troppe condizioni.

La strategia di Lai prevede l’internazionalizzazione della questione taiwanese, perché – ha spiegato – «sempre più paesi stanno sostenendo apertamente la partecipazione internazionale di Taiwan» ed è «evidente che Taiwan è un paese che appartiene al mondo e una forza affidabile per la pace e la prosperità globali».

Intanto però Pechino continua a far sottoscrivere ai governi stranieri dichiarazioni di rispetto del principio in base al quale esiste «una sola Cina» (alla base del “Consenso del 1992”).

Mega rissa in parlamento

La prima reazione ufficiale di Pechino è arrivata dall’Ufficio per gli affari di Taiwan, secondo cui le parole di Lai «aderiscono ostinatamente alla posizione favorevole all’indipendenza di Taiwan, promuovono vigorosamente l’errore del separatismo, incitano allo scontro attraverso lo Stretto e tentano di fare affidamento su forze esterne per cercare l’indipendenza».

Passata la festa, il sessantaquattrenne self made man con master ad Harvard nato a Taipei da una famiglia di minatori sarà costretto a governare potendo contare sul deludente esito delle elezioni del 13 gennaio scorso, nelle quali ha ottenuto il 40 per cento dei voti, e il suo Dpp 51 seggi nell’unica camera (113 membri), contro 52 del partito nazionalista (Kuomintang, Kmt) e 8 del partito popolare (Tpp), che si sono alleati.

Venerdì scorso, durante una seduta macchiata da violente scazzottate, l’opposizione è riuscita a far passare in seconda lettura (il voto finale è atteso per oggi) una riforma che darebbe più potere al parlamento, tra l’altro impegnando il presidente a un discorso annuale alla nazione, durante il quale sarebbe obbligato a rispondere alle domande dei deputati.

Per i rapporti con Washington il nuovo presidente potrà fare affidamento sulla sua vice Hsiao Bi-khim, che dal 2020 al 2023 è stata rappresentante di Taiwan negli Stati Uniti, dove vanta amicizie politiche importanti e bipartisan.

Nel contesto della nuova Guerra fredda, il duo che la leadership cinese accusa di essere «indipendentisti irriducibili» nelle sue mosse nei confronti della Rpc non potrà prescindere dalle politiche di Washington, che si conferma il garante della difesa dell’isola (a cui l’ultimo pacchetto varato da Joe Biden ha destinato 1,9 miliardi di dollari di aiuti militari) e del suo esecutivo.

Se, con il vertice di San Francisco, Xi e Biden si sono accordati per evitare l’escalation, non è detto che le cose non possano cambiare, non soltanto nell’eventualità di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.

Il commercio con gli Usa

La paura della Cina sta alimentando la migrazione verso occidente, Stati Uniti in primis, di settori strategici dell’economia dell’isola.

Nel primo trimestre di quest’anno il valore delle esportazioni di Taiwan verso gli Usa (24,6 miliardi di dollari) ha superato per la prima volta quello verso la Rpc (22,4 miliardi di dollari). Ancora più indicativi dei flussi commerciali sono quelli degli investimenti taiwanesi, che negli scorsi decenni sono stati tra i fattori del miracolo economico cinese, basti pensare a Foxconn, il più grande produttore di elettronica del mondo, che al di là dello Stretto ha una dozzina di impianti ed è il principale datore di lavoro privato.

Secondo il ministero dell’Economia, nel 2023 gli investimenti taiwanesi nella Rpc (3 miliardi di dollari) sono diminuiti del 40 per cento rispetto all’anno precedente, toccando il livello più basso in oltre vent’anni. Al contrario, quelli negli Stati Uniti hanno raggiunto i 9,6 miliardi di dollari, aumentati di nove volte. Il 7 agosto scorso è entrato in vigore il primo accordo commerciale tra i due paesi, e Taipei e Washington lavorano già al prossimo.

Secondo il sottosegretario di Stato, Daniel Kritenbrink, «tutto è motivato dal desiderio di rafforzare la capacità di deterrenza e resilienza di Taiwan, a sostegno del mantenimento dello status quo e per dissuadere la Cina dall’essere tentata di intraprendere azioni contro Taiwan».

Ma davvero rapporti sempre più stretti con gli Stati Uniti contribuiranno a proteggere Taiwan, oppure finiranno per spingere il suo ingombrante dirimpettaio a muovere alla conquista di quella che considera una sua provincia ribelle?

L’integrazione economica con la Cina continentale rappresenta da tempo lo strumento principale del partito comunista per arrivare alla «riunificazione pacifica» dell’isola. Il suo fallimento aprirebbe la strada a una soluzione militare, a meno che Pechino, Washington e Taipei non elaborino assieme un nuovo status quo in grado di rimpiazzare il “Consenso del 1992”.

Il monito di Mr. microchip

Intanto quella che con 400 miliardi di capitalizzazione è la più ricca tra le compagnie asiatiche, la produttrice taiwanese di microchip Tsmc, il mese scorso ha annunciato che aumenterà a 65 miliardi di dollari l’investimento a Phoenix (in Arizona), dove a una prima fabbrica in via di completamento e una seconda in costruzione se ne aggiungerà una terza: nel complesso si tratta del più grande investimento produttivo estero della storia americana.

Tsmc beneficerà di 6,6 miliardi di dollari di sussidi di stato previsti dal “Chips and Science Act” col quale Biden punta a riportare negli Stati Uniti la manifattura dei microprocessori.

Non c’è solo Tsmc, sono tante le aziende taiwanesi del settore che abbandonano la Cina. King Yuan Electronics, specializzata in test e confezionamento di semiconduttori, il mese scorso ha annunciato la cessione della sua partecipazione da 670 milioni di dollari in un’impresa nella metropoli di Suzhou.

La Kyec ha citato la geopolitica, il divieto statunitense di esportare chip avanzati verso la Cina e la politica di Pechino di ricerca dell’autosufficienza tecnologica tra le ragioni del suo disinvestimento dalla Rpc.

Morris Chang, il novantaduenne fondatore di Tsmc, ha avvertito più volte pubblicamente che il “decoupling” dei semiconduttori, «il cui scopo immediato è frenare la Cina, rallenterà tutti noi, e sarà dannoso per tutti, perché in questo settore non esiste più la globalizzazione; non esiste più il libero scambio, la priorità assoluta è la sicurezza nazionale». Chang ha sottolineato così i rischi per l’economia taiwanese: «Nell’ambito della competizione globale in corso, i nostri concorrenti potrebbero trarre vantaggio da questa tendenza geopolitica e volerci battere».

© Riproduzione riservata