Quasi di soppiatto una nuova guerra sta scoppiando in Etiopia, tra il governo federale e il Tigrai, una delle regioni decisive del paese. Dalla fine del regime sanguinario del colonnello rosso Menghistu Hailé Mariam nel 1991, l’Etiopia è divenuta una federazione. La volle così Meles Zenawi, il leader tigrino oggi scomparso, colui che aveva vinto la guerra alla guida del fronte popolare di liberazione.

Oggi è proprio il Tigrai a ribellarsi al governo centrale: in settembre la regione ha tenuto elezioni separate e qualche giorno fa le sue forze di sicurezza si sono impadronite di un campo militare federale. Il premier etiopico Abiy Ahmed non ha avuto scelta: l’ordine è stato dato all'esercito nazionale di muovere contro le forze tigrine e già l’aviazione bombarda la regione.

Non è ciò che si attendeva il premio Nobel per la pace del 2019, colui che voleva rilanciare l’unità del paese riequilibrando il potere tra le varie componenti. Abiy è anche il primo oromo a guidare l’Etiopia, malgrado la sua etnia rappresenti il gruppo più numeroso.

Fino ad ora nemmeno la dissoluzione dell’ex partito unico dell’epoca precedente e la nascita di una nuova formazione meno basata sulle etnie (partito della prosperità), gli hanno giovato. Gli stessi oromo sono in agitazione e c’è chi teme che i tigrini stiano raccogliendo attorno a sé tutti gli scontenti delle varie regioni per, paradossalmente, unirli su un programma secessionista. Se a ciò si aggiunge il contenzioso con l’Egitto per la diga sul Nilo e la crisi da coronavirus, lo scenario che deve affrontare il primo ministro etiopico non è dei più rosei.

La parabola di Ahmed

Qualcuno comincia a chiedersi se Abiy Ahmed non diverrà il Gorbaciov etiopico: stiamo assistendo all’ultima fase unitaria del paese? Il leader è lodato all’estero ma rischia di venir travolto dalle fratture interne.

Divenuto uno degli africani più popolari, all’inizio prometteva bene: giovane, intraprendente, creativo, deciso a cambiare in meglio il suo paese. In pochi mesi ha fatto la pace con l’Eritrea, aiutato gli Stati vicini a riconciliarsi fra di loro, liberato i prigionieri politici, abolito lo stato di emergenza e sciolti i terribili servizi di sicurezza di Meles, liberalizzato i media, legalizzato gruppi di opposizione, rimosso molti corrotti, creato il ministero della Pace, designato una donna come presidente. Tutte ragioni alla base dell’inatteso Nobel per la pace che lo ha trasformato in influencer della politica africana e globale. Eppure non tutto è andato per il verso giusto. La realtà interna era talmente complessa da provocare un effetto boomerang.

Come si è arrivati a questo punto? Nel 2012 alla morte di Meles Zenawi, l’Etiopia si era sentita improvvisamente orfana. Gli stessi funerali del premier tigrino si erano svolti in forma solenne: migliaia di preti ortodossi con turiboli a precedere il feretro trascinato da cavalli bardati di nero e seguito da popolo ed esercito. Addis Abeba si era fermata silente, le strade deserte: tutti in lutto. Meles non era particolarmente credente né molto amato. Tuttavia quel giorno tutti i simboli della millenaria nazione erano stati riesumati per l’occasione. Venivano forse celebrate le esequie che furono impossibili alla morte del Negus e tutto il paese stava con il fiato in sospeso: cosa sarebbe accaduto dopo?

Nella sua antichissima storia l’Etiopia è sempre stata in bilico tra imperatore e ras, cioè tra potere centrale e secessionismi locali. Per questo Meles aveva giocato la carta della federazione: il nuovo partito unico diveniva una coalizione di partiti regionali: tigrini, oromo, somali, amhara e altri, confederati in un solo movimento politico ma conservando le distinzioni regionali ed etniche. Il mosaico etiopico veniva così ufficialmente riconosciuto, fissandolo nella nuova costituzione del 1995. Fu un errore fatale? Fatto sta che la regionalizzazione è rimasta sostanzialmente formale perché nella realtà i tigrini si erano impadroniti di tutte le leve del governo (prima esclusivo appannaggio amhara). Nessuno aveva la forza di contrastare Meles che tuttavia si faceva apprezzare per la sua capacità politica e l’autorevolezza con cui teneva a bada le spinte centrifughe. Pacificato il paese, lo aveva modernizzato e aperto allo sviluppo. L’unico neo restava l’irrisolto conflitto con il cugino eritreo.

Dopo Meles

Morto inaspettatamente a 57 anni, con Meles spariva anche la generazione della guerra di liberazione. Il suo immediato successore, Hailé Mariam, fu scelto perché proveniente da una delle etnie minori del sud, sperando di disinnescare sul nascere la bomba etnica che si era subito rimessa in moto. Se ne parlava sommessamente per strada e nei corridoi del potere: gli oromo maggioritari erano scontenti e volevano finalmente accedere alla guida del paese sentendo che era giunto il loro turno dopo secoli di amhara e di tigrini.

Dal canto loro gli etiopici somali dell’Ogaden si comportavano già come fossero autonomi, giocando di sponda con la confinante Somalia da tempo a pezzi. La polizia regionale somala era divenuta una specie di milizia tanto che lo stesso Hailé Mariam l’aveva utilizzata contro i riottosi oromo. Il vuoto di potere stava causando una reazione a catena fuori controllo. Alla fine nel 2018 si arrivò dunque alla sofferta decisione di offrire il posto di premier ad un oromo: Abiy Ahmed appunto. Era già troppo tardi? In effetti la luna di miele è durata poco.

Il nuovo leader ha invertito la rotta diminuendo il peso delle regioni e cancellando l’accordo federativo su base etnica. Il motto di Abiy è “medemer”: inclusione ma anche forza nella diversità. Sperando di essere ancora in tempo, il premier ha costretto il partito di regime a mutare pelle per divenire un movimento unitario senza differenze etniche al suo interno. Così facendo Abiy si è quasi subito alienato una buona parte degli oromo che lo avevano sostenuto nella scalata al comando. I tigrini intanto si erano arroccati per mesi nella loro regione uscendo dal loro risentimento muto solo per organizzare consultazioni separate. Un modo per dire addio alla federazione.

Rischio balcanizzazione

A peggiorare la situazione è stato anche il malcontento popolare per la caduta generale della qualità della sicurezza: lo scioglimento dei vecchi apparati securitari ha avuto come risvolto il dilagare della violenza quotidiana, criminale ma soprattutto etnica. Qualcuno sostiene che si tratti di provocazioni teleguidate ma il quadro si è complicato: le etnie si battono fra di loro e tre milioni di etiopici sono sfollati interni. Risultato: la gente si arma da sola.

La reazione militare di Abiy contro il Tigrai è dettata dalla fretta: il premier sa che gli rimane poco tempo e che deve giocare d’anticipo. Per ora la maggioranza degli etiopici sembra ripiegata in un atteggiamento pessimistico e di malcelata insoddisfazione, pronta a provocare turbolenze. I successi del premier all’estero hanno avuto l’effetto contrario: sono cresciuti i nostalgici dell’era Meles. Inoltre a giugno 2019 c’era già stato uno strano tentativo di putsch di marca amhara, non si sa quanto pilotato, che aveva costretto ad operare una purga nelle forze armate.

Le controversie regionali sono come un cancro che corrode il paese, una vera bomba a frammentazione. Nel caos generale anche i gruppi minori si stanno muovendo per chiedere la propria autonomia, come i sidama o i welayata. L’etnicismo è una malattia contagiosa e la balcanizzazione sempre in agguato: un vero rompicapo per il nuovo leader etiopico. Sembra che in molti cerchino di spingere il premier al fallo, l’errore fatale che potrebbe perderlo. D’altronde Abiy è di fede neo-pentecostale e gli viene attribuita una visione “messianica” della politica, poco incline ai compromessi. Ma è proprio di un nuovo patto negoziato tra i popoli che la compongono, che l’Etiopia ha urgente bisogno.

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