A eccezione del 4 luglio, la festa di compleanno della nazione – il giorno dell’indipendenza — tutte le altre date del calendario politico americano sono scandite secondo i giorni della settimana: il primo lunedì di settembre è la festa del lavoro; il primo martedì di novembre è il giorno delle elezioni per il Congresso e presidenziali (queste ultime cadono sempre nell’anno bisestile); il terzo lunedì di gennaio ricorda Martin Luther King; il terzo lunedì di febbraio ricorda Abraham Lincoln (di fatto è il President Day); il terzo lunedì di maggio ricorda i caduti di tutte le guerre (Memorial Day).

Questa cadenza vale anche per l’inizio delle scuole (pubbliche e molte private): il semestre di autunno comincia dopo il week-end della festa del lavoro e quello di primavera dopo il giorno di King, proprio come l’inaugurazione del nuovo presidente eletto. Cominciano le scuole e comincia il lavoro della nuova Casa Bianca. Il 20 gennaio 2017 e il 20 gennaio 2025 sono i giorni dell’inaugurazione delle due presidenze Donald Trump. Identiche le date. Diversissime le atmosfere.

Tutto cambiato

Quella del 2017 fu un’inaugurazione divisa come una mela tagliata a metà: quella dei trumpiani e quella degli antitrumpiani, quest’ultima animata, anzi indetta, dalle donne che sfilarono a Washington portando un berretto rosa (“the pink-pussy” per denunciare le parole offensive usate da Trump in campagna elettorale per spiegare come si comportava con le donne: «Grab the pussy»).

E oggi? Beh! Oggi proprio nulla di tutto questo. Se resistenza c’è, è sentita nella mente ma non messa in movimento; una resistenza di riflessione, sconsolata e volta a comprendere il senso di questo tempo: non perché si è perso, ma che tipo di vittoria sia quella nuova di Trump.

Trump ha vinto le elezioni. Come le aveva vinte nel 2016. Ma l’aspetto nuovo di questa seconda vittoria è che ha continuato a vincere a urne chiuse. Come se il 5 novembre non fosse mai finito. Ogni giorno, da allora, è stato un giorno di crescita nei consensi, non tuttavia grazie alla sua persona e alle sue parole.

Il suo secondo in campo, Elon Musk, ha assicurato una volata continua dal 5 novembre, creando intorno a sé (o sotto di sé) un partito nuovo, quello degli oligarchi, di cui egli è stato l’iniziatore e l’ispiratore. Intorno a lui sta la famiglia allargata di coloro che operano nelle corporation, non solo come ricchi capi: ingegneri informatici, creatori di intelligenza artificiale, di nuove infrastrutture mediatiche, applicabili all’astrofisica, alla biologia, alla medicina.

L’orbita di Elon

Gli Stati Uniti dell’hi-tech e dell’informatica stanno tutti nell’orbita che ruota intorno a Musk, e quindi a Trump.

Il consenso va al di là della cerchia dei ricchissimi. Secondo un recente sondaggio promosso da New York Times e Ipsos, metà degli americani (e dei democratici) è favorevole alla deportazione in massa degli immigrati illegali; metà di essi (anche tra i democratici) sono convinti che ci debba essere una politica protezionistica che colpisca i prodotti importati nella speranza (forse infondata, ma ora trascinante) che ciò aiuti il “made in Usa”. E poi, ciliegina sulla torta: per la maggior parte dei democratici il sistema economico è ingiusto verso i meno abbienti, ma da questa premessa essi arrivano a condividere con i repubblicani la medicina: meno regole, meno interferenza governativa. Via i lacci e i lacciuoli. È ancora reaganismo.

Scrive Peter Baker sul New York Times: «Una parte della deferenza mostrata a Trump dal mondo politico, mediatico e aziendale deriva da una più ampia sensazione che forse l'opinione popolare è più dalla parte di Trump di quanto si pensasse. Forse, in quest'ottica, il signor Trump, per quanto imperfetto, ha colto qualcosa di importante suggerendo che il paese ha bisogno di ripensare radicalmente alcuni suoi processi integrati» economici e sociali. Il secondo Trump inaugura una nuova mentalità, che promana da quei settori nei quali la potenza americana è globalmente egemone, e che – incredibile a dirsi, ma vero – è stata messa in gestazione proprio dai soldi pubblici. E, oggi, quel mondo potente vuole meno regole e più arbitrio.

Che significa, certamente, più rischio e più opportunità. Insomma, una nuova veste dell’eccezionalismo americano, che si reinventa ogni qualvolta la società deve reagire a nuove sfide e inventare nuove praterie. E la Silicon Valley, pompata coi soldi pubblici, si intesta il secondo mandato di Trump.

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