A ben vedere, quello siglato tra Arabia Saudita e Iran con la decisiva mediazione della Cina è un accordo che non dovrebbe coglierci troppo di sorpresa.

I segnali erano visibili da tempo e gli Emirati Arabi Uniti, che spesso si muovono in anticipo rispetto ai vicini sauditi, già nell’autunno 2022 avevano riaperto la loro ambasciata in Iran. Cionondimeno, e pur con la necessaria cautela nei confronti di una roadmap i cui frutti andranno valutati nei prossimi mesi, l’importanza di questo sviluppo non può essere sottovalutata.

La Cina ha capitalizzato un lavoro iniziato nel 2021 quando i funzionari dell’intelligence dei due rivali hanno cominciato a incontrarsi, prima in Iraq, poi in Oman e infine anche in Giordania, nell’ambito della cosiddetta Conferenza di Baghdad.

Queste iniziative, però, sembravano essersi bloccate in seguito allo scoppio delle proteste in Iran avvenuto nel settembre scorso. Per quanto dunque si possa dire che diversi attori abbiano contribuito al raggiungimento di quest’intesa, non va sminuito il fatto che sia stata proprio la Cina a compiere l’ultimo miglio.

È qui infatti che si rintracciano i segni della nuova stagione che stiamo vivendo. Non può sfuggire il fatto che l’Arabia Saudita, fondamentale e storico alleato degli Stati Uniti in medio oriente, abbia raggiunto un accordo con un avversario di Washington, per di più proprio grazie all’intervento del grande competitor globale degli americani.

L’esclusione degli Stati Uniti mostra chiaramente almeno tre aspetti. Primo, che i paesi del Golfo (Arabia Saudita ed Emirati Arabi in testa) hanno compreso che il mondo unipolare sorto dopo la fine della Guerra fredda è al tramonto.

Secondo: questa consapevolezza li porta a valutare ciascuna politica (tanto estera quanto in materia economica o domestica) secondo i propri interessi nazionali. L’ha rivendicato con forza il principe Abdulaziz bin Salman quando l’Arabia Saudita fu fortemente criticata per aver deciso insieme all’Opec+ di tagliare la produzione di petrolio, nonostante le pressioni in senso contrario dell’amministrazione Biden.

Continuano a chiederci, disse il ministro dell’Energia saudita, «se siete con noi o contro di noi (…) ma non c’è nessuno spazio per dire “siamo per l’Arabia Saudita e per la popolazione dell’Arabia Saudita?”».

Ciò non significa, certo, che l’alleanza tra gli Stati Uniti e i paesi del Golfo finisca improvvisamente, ma il quadro all’interno del quale essa si dipana diventa transazionale: di volta in volta le capitali arabe sceglieranno con chi è più conveniente stare.

Garanzia di serietà?

Terzo aspetto: per la prima volta la Cina cessa di essere un mero, per quanto influente, attore economico nell’area (ammesso che sia mai stata veramente solo questo) e compie ciò che agli Stati Uniti non sarebbe stato possibile.

Pechino riesce a presentarsi come un portatore di distensione mentre Washington, la cui politica negli anni è stata quella di rafforzare alcuni a discapito di altri senza però riuscire ridurre la tensione nell’area, è percepita più come parte del problema che della soluzione.

Non a caso sul quotidiano panarabo filo-saudita Al Sharq al Awsat si è letto in questi giorni che la Cina è «una garanzia di serietà».

Affermazioni del genere scontano naturalmente la canonica dose di opportunismo, ma molto probabilmente, come ha notato un autorevole commentatore saudita, a Riad devono aver pensato che questa intesa con Teheran comporta l’innalzamento dei costi (politici e non solo) che Teheran dovrebbe sostenere nel caso non mantenesse la parola data: se lo facesse, la Repubblica islamica deluderebbe anzitutto l’alleato cinese. Cosa che difficilmente potrebbe permettersi in questo momento.

Inoltre, a differenza degli Stati Uniti, che via via hanno ridotto le importazioni di petrolio dall’Arabia Saudita, la Cina è diventata il primo destinatario del greggio saudita (più di un milione e mezzo di barili al giorno) e di quello iraniano, grazie anche alle sanzioni americane.

È dunque naturale che, diversamente da Washington, Pechino sia in grado di influenzare tanto l’Arabia Saudita quanto l’Iran.

Eppure, se Riad ha cambiato la sua posizione nei confronti dell’Iran (solo cinque anni fa il principe ereditario Mohammed bin Salman paragonava la Guida Suprema Ali Khamenei a Hitler) ciò si deve anche ad alcune decisioni statunitensi degli ultimi anni.

Due sono i momenti chiave. Uno è il caotico ritiro americano dall’Afghanistan, che ha rafforzato la percezione di un disimpegno degli Stati Uniti dalla regione mediorientale.

Ma ancor più importante è quanto avvenuto nel settembre del 2019, quando i ribelli houthi sostenuti dall’Iran hanno attaccato le infrastrutture della Aramco ad Abqaiq e Khurais, nella zona orientale dell’Arabia Saudita, interrompendo le operazioni di estrazione di petrolio (la produzione saudita si ridusse di oltre 5 milioni di barili al giorno).

In quell’occasione i vertici sauditi si sarebbero aspettati dagli Stati Uniti del presidente Donald Trump, loro grande alleato, una dura reazione e una ritorsione contro l’Iran. Che non c’è stata. Dopo aver preso parte attivamente alla campagna di maximum pressure, i vertici sauditi si sono sentiti personalmente traditi.

Ma soprattutto hanno compreso che non potevano più fare affidamento incondizionato sull’ombrello securitario statunitense. Così, improvvisamente, la diplomazia che fino a quel momento poteva rimanere un’opzione secondaria, è tornata a essere una via da percorrere.

Le leve cinesi

Strada facendo, Riad ha compreso che le leve che la Cina vanta nei confronti dell’Iran potrebbero essere un fattore più affidabile rispetto alla mera deterrenza garantita delle batterie di Patriot americane dislocate nel regno.

A ciò si aggiunge che gli impegni presi con i cinesi non si accompagnano ai continui richiami al rispetto dei diritti umani. Un’insistenza fastidiosa per tutti i regimi autoritari, arabi e non. Nel cambio di strategia operato da Riad pesano però anche calcoli di differente natura.

Se è vero che affinché il petrolio fluisca liberamente riempiendo le casse saudite è necessaria una certa stabilità regionale, è altrettanto vero che l’assenza di conflitto è ancor più importante per le attività previste dal piano Saudi Vision 2030 grazie al quale l’Arabia Saudita vuole affrancarsi dalla dipendenza dagli idrocarburi.

Tra gli obiettivi della “Vision” vi è l’aumento delle capacità ricettive dell’Arabia Saudita per ospitare i fedeli musulmani che compiono il pellegrinaggio, passando dagli attuali 8 a 30 milioni di pellegrini all’anno entro il 2030.

Vi è anche una componente legata al turismo fatta di iniziative mastodontiche e futuristiche, come quelle del progetto Mar Rosso, o quelle che fanno parte di Neom, come Sindalah (una sorta di paradiso degli yacht) e Trojena (la destinazione montana all’interno di Neom).

Difficile pensare di riempire queste destinazioni di turisti in una situazione di instabilità regionale. Allo stesso modo la leadership saudita ha compreso che il coinvolgimento nella guerra in Yemen è un freno per il flusso di investimenti necessari proprio per realizzare questi megaprogetti.

Non a caso è proprio riguardo allo Yemen che erano stati fatti i primi passi avanti nelle relazioni tra Arabia Saudita e Iran, con il raggiungimento di una tregua ad aprile 2022. Ed è qui che dovremo guardare per cogliere i primi frutti dell’accordo mediato dalla Cina, o i segni del suo fallimento.

La notizia positiva è che l’Iran sembra intenzionato a interrompere il flusso di armi che invia clandestinamente ai ribelli houthi. Tuttavia, come hanno ricordato i diretti interessati e come diversi studiosi hanno sempre sottolineato, il controllo che la Repubblica Islamica esercita sugli houthi non è così stretto come potrebbe sembrare.

Ma mentre per l’Arabia Saudita lo Yemen è una priorità assoluta, per l’Iran la fine del sostegno agli houthi non sarebbe un colpo troppo duro da assorbire. Resta da vedere come reagirà Israele, che aveva scommesso sulla normalizzazione con l’Arabia Saudita proprio in funzione anti-iraniana.

© Riproduzione riservata