La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come cosplay. La serissima protesta a favore della Palestina degli studenti nei campus americani, in vari casi repressa con ingiustificata brutalità dalla polizia, è entrata nella dimensione della parodia quando alcuni manifestanti hanno trasformato l’iniziativa in un gioco di ruolo nel quale le sofferenze dei civili nella Striscia di Gaza e l’oppressione dell’esercito israeliano vengono riproposte nei campus dell’élite, ma senza emergenza umanitaria e possibilmente senza grassi animali.

Gli studenti che chiedono l’accesso di «aiuti umanitari» negli edifici occupati, quelli che raccolgono fra i beni di prima necessità i dispositivi per fermare le emorragie negli arti e i test per l’Hiv, la retorica dell’accerchiamento da parte dell’esercito, le accuse di essere affamati dall’avversario che impone l’embargo, le richieste di cibo di qualunque genere eccetto i bagel, nutrimento del nemico sionista.

Lo spettacolo di giovani, o magari non più giovanissimi, studenti e ricercatori che indossando la kefyah si atteggiano come se fossero in un campo profughi di Khan Younis quando invece sono nell’Upper West Side di Manhattan ha in effetti gettato un’ombra di perplessità anche sui più convinti sostenitori della causa.

Così come il professore che per valorizzare l’impegno dei ragazzi ha deciso di dare a tutti una A, che è come il 18 politico ma non rovina la media, e i critici hanno avuto gioco facile a dire che Edward Said, il più grande intellettuale palestinese dei nostri tempi, avrebbe rimandato tutti in classe, altro che notti in tenda e voti regalati. 

Il rettore dell’Università di Chicago aveva individuato prima di altri il rischio del ridicolo quando in una lettera alla comunità accademica aveva sottolineato le implicazioni semantiche di mettere in atto non una manifestazione o una marcia ma un accampamento, con tutte le implicazioni militaresche che il termine contiene. Aveva intuito che si andava verso la recita scolastica più che verso il ‘68.

Le manifestazioni sono sempre esposte a questo rischio. Ai tempi di Occupy Wall Street, insediamento permanente a due passi dal cuore dell’odiata finanza globale, Zuccotti Park si era rapidamente diviso in due quartieri: da una parte quelli che pedalavano sulla cyclette per alimentare il Mac e si scambiavano letture impegnate nella biblioteca improvvisata, dall’altra il campo delle tende sudicie dove giravano coltelli e crack. Anche gli occupanti di Wall Street avevano i bassifondi e i quartieri alti, spaccatura colta in un memorabile segmento di Jon Stewart, quando non aveva ancora la barba.

Tutto questo ha riflessi politici ed elettorali che verranno misurati a novembre, ma per il momento si possono fare alcune considerazioni che hanno a che fare con la distanza fra chi prende sul serio le proteste dei campus e chi le prende alla lettera. 

Chi le prende sul serio tralascia le ingenuità retoriche dei manifestanti e guarda con indulgenza agli eventuali inciampi comunicativi, in nome del contenuto del messaggio di solidarietà al popolo palestinese e della critica al governo di Israele (e in qualche caso all’esistenza stessa dello stato ebraico).

Questi certamente non concordano con la politica di Joe Biden e non lo voteranno a novembre. Se potessero voterebbero per qualcuno che sta alla sua sinistra, ma in questo caso non c’è (o non ha alcuna possibilità elettorale).

Poi ci sono quelli che prendono la parodia alla lettera. Questi sono rinfrancati, se non addirittura radicalizzati, nella loro convinzione di votare per i repubblicani.

Se Donald Trump non è il loro candidato ideale o suscita in loro perfino orrore, pazienza: dall’altra parte ci sono studenti tendenzialmente ricchi e viziati travestiti da manifestanti radicali che ordinano cibo vegano e gridano al genocidio se la polizia non fa passare i rider che lo consegna. Sono attori inconsapevoli di un lunghissimo e gratuito spot elettorale per l’ex presidente.

Quelli che prendono sul serio i manifestanti dei campus e quelli che li prendono alla lettera hanno dunque una cosa in comune: non voteranno per Biden. 

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