La contrapposizione tra Iran e Arabia Saudita ha rappresentato, negli ultimi trent’anni, il confronto simbolico per eccellenza sulla più nota linea di faglia confessionale che attraversa il medio oriente: quella tra sciiti e sunniti.

Gran parte delle crisi che hanno interessato il medio oriente contemporaneo sono state analizzate attraverso il prisma delle guerre per procura, combattute in nome dello sciismo rivoluzionario iraniano o dell’ultra-conservatorismo sunnita saudita.

La rottura dell’ordine regionale

Se prima del 1979 l’Iran e l’Arabia Saudita erano i due pilastri sui quali si fondava la strategia politica degli Stati Uniti in medio oriente, la rivoluzione islamica iraniana ha modificato totalmente l’assetto dell’ordine regionale. Insofferenti rispetto alla subordinazione nei confronti di Washington, contrari alle politiche di modernizzazione imposte dallo Shah, diversi strati della popolazione iraniana si ribellarono all’ordine monarchico dando vita alla Repubblica islamica, guidata dalla classe degli ulema sciiti e dalla figura dell’ayatollah Khomeini.

La rivoluzione islamica ha avuto due importanti conseguenze. Dal punto di vista culturale, la rivoluzione del 1979 ha dato un nuovo slancio all’Islam politico nella regione, e ha cambiato i connotati dello sciismo. Lo sciismo rivoluzionario di Khomeini era infatti impregnato di messaggi antimperialisti e anti-occidentali, estremamente attrattivi in un’area che aveva da poco vissuto i difficili processi di decolonizzazione. Sul piano geopolitico la rivoluzione cambia il sistema di alleanze dell’Iran, che si allontana definitivamente dagli Stati Uniti e modifica la sua postura in un’ottica revisionista dell’ordine regionale.

Il confronto con Riad

Senza più l’ombrello statunitense a garanzia del mantenimento dell’equilibrio tra i due ex “twin pillars”, si apre il confronto per l’egemonia regionale. Riad e Teheran si scoprono nemici perfetti: da una parte la monarchia arabo-sunnita, protettrice dei luoghi santi dell’Islam e di una visione conservatrice della dottrina; dall’altra la nuova Repubblica islamica dalla storica identità persiana, che ha portato lo sciismo al potere tramite una rivoluzione di massa.
L’Arabia Saudita vede sfidata la sua egemonia, che aveva costruito con un lungo lavoro diplomatico e culturale all’interno delle principali organizzazioni multilaterali islamiche, utilizzate come strumento di soft power. Per contrastare la nuova propaganda iraniana – che soprattutto nei primi anni cerca di “infiammare” le comunità sciite nell’area – Riad rivendica come legittima la propria posizione egemone nella comunità islamica. Tale ruolo è condiviso dalla quasi totalità dei paesi della regione: la dinastia Saud, protettrice delle due città sante dell’Islam, ha una forte credibilità e riesce a difendere la propria posizione.

I sauditi, nel corso degli anni Ottanta, mirano da una parte ad accentuare il carattere settario e minoritario della rivoluzione iraniana, per indebolirne la portata della propaganda, e dall’altra creano un sistema di alleanze volto a comprimere la rivoluzione all’interno dei confini iraniani, impedendone la diffusione alle comunità sciite vicine. Sostengono la guerra dell’Iraq (a maggioranza sciita) di Saddam Hussein in Iran, finanziano il processo di islamizzazione del Pakistan del generale alleato Zia ul-Haq, che reprime la numerosa minoranza sciita, e tramite l’asse con Islamabad supportano la nascita del primo movimento dei Talebani in Afghanistan, che a livello locale esprime gli interessi dei pashtun sull’etnia sciita degli hazara.

La religione come strumento

Che la religione sia una variabile che influenzi le azioni e il comportamento di uno stato è una tesi diffusa soprattutto nello studio del medio oriente. Anche la politica occidentale ha accreditato tale tesi: Obama nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 2016 parla di «conflitti che risalgono a millenni fa» in riferimento al medio oriente, e Trump nel 2017 accusa l’Iran di alimentare lo «scontro settario» nella regione. Decenni di racconto mediatico sui fenomeni del terrorismo jihadista hanno alimentato tali narrazioni, che vedono la religione come variabile indipendente per spiegare i fenomeni politici nell’area.

Qual è quindi il ruolo della religione nelle interazioni tra stati? È essenzialmente strumentale: può fornire un fattore di legittimità; può rappresentare una piattaforma di soft power; è in grado di mobilitare le masse all’azione, in quanto è uno dei principali valori comunitari che identifica l’unità nazionale e che pone un confine ideale con “l’altro”. Ma rimane uno strumento, e non la causa di un confronto tra stati, anche nel caso in analisi in questo articolo. Le élite iraniane e saudite hanno utilizzato la religione come fonte di legittimazione interna con lo scopo ultimo dell’autoconservazione: tali comportamenti si ritrovano persino nel Terzo secolo, quando l’impero sasanide – antenato dell’Iran – utilizzava la religione zoroastriana come pilastro del potere reale, spaventato dalla crescente penetrazione cristiana nei territori iranici. Teheran e Riad hanno inoltre utilizzato il fattore religioso per accrescere la propria influenza nella regione: l’Iran parlando alle comunità sciite dell’area, il regno saudita rivendicando il proprio ruolo di guida nel mondo islamico.

La vera competizione

Il principale elemento che influenza la competizione tra Riad e Teheran è di carattere securitario. La rivoluzione del 1979 ha innescato quello che lo studioso John Herz ha teorizzato come il «dilemma della sicurezza» (1950): concetto chiave nelle relazioni internazionali, si verifica quando uno stato si sforza nell’acquisire sempre più potere per accrescere la propria sicurezza, nel timore di venire attaccato, generando di conseguenza un aumento di insicurezza negli altri stati e stimolando un confronto per il potere. Parallelamente all’aumento del proprio potere, uno stato cercherà di accrescere il proprio controllo sull’ambiente, tentando di cambiare il sistema – in questo caso regionale – conformandolo il più possibile ai propri interessi.

Il settarismo intensifica lo scontro, ma non lo determina. Le cause sono materiali, seguono logiche geopolitiche, e si articolano attorno diversi fattori. Uno fra tutti il controllo degli stretti: sia Riad che Teheran sono paesi fortemente dipendenti dall’esportazione delle materie prime, e controllare le vie di transito principali (Hormuz e Beb el-Mandeb) risulta strategico. Più in generale le mire egemoniche iraniane e saudite si rivolgono a tutto il medio oriente, e i due paesi tentano di massimizzare la loro influenza nei vari contesti regionali per limitare il raggio d’azione dell’altro. Teatri principali sono stati, negli anni, il Libano, la Siria, l’Iraq e lo Yemen.

La percezione della minaccia

Avere bene a mente quali siano i timori strategici dell’Arabia Saudita e dell’Iran è fondamentale per capire le scelte dietro le politiche regionali e di sicurezza dei due paesi, e per pensare a come arrivare a una de-escalation nell’area. La principale minaccia per l’Arabia Saudita è l’Iran: Teheran si percepisce come unico “stato naturale” nel Golfo – circondato da “stati artificiali” – con una missione imperiale. Per l’Iran invece il pericolo strategico è la presenza statunitense nella regione. L’Arabia Saudita rappresenta – vista la sua partnership con gli Usa – una calamita per le forze che Teheran considera nemiche.

Per questo l’Iran nel corso degli anni ha assunto una postura militare volta ad aumentare il grado di instabilità nella regione, con il fine ultimo di allontanare la presenza statunitense. Una dottrina che le principali istituzioni del paese intendono come offensiva a livello tattico, ma difensiva sul piano strategico. Consapevole dell’asimmetria di potenza nei confronti con Washington, Teheran ha costruito la propria deterrenza tramite l’utilizzo delle varie milizie paramilitari, coordinate dalla Brigata Quds e dal lavoro del generale Soleimani (eliminato da un raid statunitense nel gennaio del 2020), nei diversi scenari regionali.

Al contrario, come detto, per l’Arabia Saudita è l’Iran – specialmente l’influenza nello Yemen tramite gli Houthi – a rappresentare la principale minaccia alla propria sicurezza. Considerata la differenza sul piano demografico con Teheran, Riad risponde a questa minaccia investendo molto nella spesa militare, specialmente nello sviluppo di una moderna forza aerea e antiaerea, essenziale per difendere il proprio confine meridionale. Inoltre, Riad ha l’obbligo di mantenere attiva la partnership strategica con gli Stati Uniti, rendendosi attrattiva nei confronti di Washington, e di rallentare quel processo di disimpegno dalla regione che gli Usa hanno intrapreso sin dalla prima amministrazione Obama.

Un equilibrio senza Washington

In diverse occasioni le élite saudite hanno palesato il timore per l’uscita degli Stati Uniti dalla regione. Allo stesso tempo, un graduale ritiro di Washington potrebbe segnare la scomparsa della principale minaccia percepita dall’Iran, che a quel punto si ritroverebbe nella condizione di poter rivedere la propria politica regionale in un’ottica maggiormente cooperativa. La ricerca di una condizione di equilibrio è estremamente delicata e si articola attorno a questa contraddizione. Le politiche dell’amministrazione Trump, che hanno legato il tema della sicurezza del Golfo con quella di Israele, e che hanno aperto a una fase distensiva tra diversi attori del medio oriente, pongono Biden di fronte a un dilemma non semplice: come reintegrare l’Iran in un contesto multilaterale controllato (un nuovo accordo sul nucleare) senza scontentare Israele e Arabia Saudita. Le difficoltà nel raggiungere un accordo a Vienna derivano da tale condizione. Il viaggio di Biden a Riad serve anche a sciogliere questa antinomia.

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