Martedì l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, dichiarava la necessità di «mettersi in contatto con le autorità di Kabul, qualunque esse siano», poiché «i Talebani hanno vinto la guerra».

La necessità di avviare un dialogo con i Talebani trova nella volontà di evitare una ulteriore crisi umanitaria e migratoria la sua ragione e non significa, come chiarito da Borrell, il riconoscimento del nuovo Emirato islamico dei Talebani.

Nella stessa giornata, Amrullah Saleh, il vicepresidente dell’Afghanistan, annunciava su Twitter che, sulla base della costituzione del 2004, nei casi di assenza, fuga, dimissioni o morte del presidente dell’Afghanistan, il vicepresidente ne avrebbe assunto le funzioni ad interim.

Dichiarandosi il legittimo presidente, Saleh ha rivolto un appello a tutti i leader e agli afghani a unirsi alla resistenza contro i Talebani sostenuti dal Pakistan. A confermare il consolidato network tra i Talebani e il Pakistan sono, in questi giorni, diverse foto che dimostrerebbero il trasferimento in Pakistan di mezzi e veicoli corazzati statunitensi sequestrati dai Talebani alle forze di sicurezza afghane.

Sempre su Twitter Saleh ha ribadito la volontà di non deludere l’eroe nazionale Ahmad Shah Massoud, “il Leone del Panjshir”, eroe della resistenza contro l’invasione sovietica, ucciso il 9 settembre del 2001 dai Talebani. Proprio come negli anni Novanta, ancora una volta, la valle del Panjshir, unica regione non conquistata dai Talebani, sta organizzando, sotto la guida di Ahmad Massoud, il figlio del leggendario comandante, la resistenza armata ai Talebani. Fonti delle Afghan National Security Forces (Ansdf) confermano un quadro politico e militare in evoluzione. Saleh e Massoud sarebbero insieme ad altri leader e una forza di più di 10.000 combattenti, sia guerriglieri che militari non arresisi ai Talebani, nel Panjshir pronti a riorganizzare la resistenza e a riconquistare il nord dell’Afghanistan.

La repressione

La fonte denuncia che «i Talebani, nonostante gli iniziali messaggi lanciati all’occidente per evidenziare una diversità con il passato, sarebbero alla ricerca di un riconoscimento internazionale e i metodi violenti, soprattutto lontano dalle città sarebbero gli stessi di sempre». A confermare queste preoccupazioni anche la reazioni dei Talebani che hanno sparato contro la folla a Jalalabad che manifestava in difesa della bandiera nazionale e la dichiarazione del portavoce dei Talebani «non saremo mai una democrazia» alla Reuters. Per la resistenza l’emirato islamico è uno scenario politico inaccettabile, così come vengono ritenute offensive per la popolazione afghana le recenti dichiarazioni di Biden.

Nuova guerra civile

Lo scenario che sembra profilarsi, anche da quanto trapela da una serie di colloqui in Pakistan, è che in assenza di un diverso assetto politico rappresentativo di tutte le anime afghane, di un accordo sulla forma di governo e sulla bandiera, l’Afghanistan rischi di avviarsi verso una nuova guerra civile o addirittura una spaccatura del paese con al nord le forze della resistenza di quella che fu l’”Alleanza del nord” e il sud nelle mani dei Talebani.

È evidente che sulle capacità di combattimento delle forze riunite nel Panjshir inciderà, come chiesto anche pubblicamente da Ahmad Massoud, la volontà dell’occidente di sostenere o meno la resistenza e di esercitare attivamente tutti quegli strumenti necessari affinché il futuro assetto dell’Afghanistan non sia tutelato soltanto da quegli attori che hanno scommesso sul ritorno dei Talebani.

La storia si ripete e l’Afghanistan, dopo il ventennio della Global War on Terrorism (Gwot), è nuovamente al centro del “grande gioco” con ruoli e agende differenti nella regione tra Stati Uniti, Unione europea, Repubblica popolare cinese, Russia, Iran, Pakistan e India.

 

© Riproduzione riservata