L’uomo più potente d’America, il senatore democratico Joe Manchin, ha soffocato la rivoluzione verde di Joe Biden prima ancora che venisse alla luce.

Manchin ha fatto sapere alla Casa Bianca che la sua opposizione al cuore dell’agenda climatica di Biden – un dispositivo per rimpiazzare in tempi stretti le centrali elettriche a carbone e gas con impianti fotovoltaici, eolici e nucleari – è irremovibile, dunque non ci sarà il suo voto decisivo in Senato sull’iniziativa energetica da 150 miliardi di dollari, inserita nella gigantesca legge di bilancio.

È la conclusione politica ovvia di tutte le bizze che il senatore della West Virginia ha fatto in questi mesi, ergendosi ad arbitro quasi solitario (talvolta in compagnia della senatrice Kyrsten Sinema, dell’Arizona) delle ambizioni bideniane di ridisegnare l’intero impianto sociale americano su uno sfondo verde. Quelle ambizioni sono ormai drasticamente ridotte.

I funzionari dell’amministrazione ora stanno cercando di spacchettare il progetto di riconversione alle rinnovabili per infilarlo surrettiziamente in altri punti del disegno di legge, ma è chiaro che non potrà rientrerà dalla finestra tutto quello che non si è riusciti a far passare dalla porta.  

Lo stato del carbone

«Abbiamo assolutamente bisogno di quel programma per raggiungere i nostri obiettivi climatici, questa è la realtà», ha detto l’esperta di politiche climatiche Leah Stokes, consulente del Partito democratico, «e adesso non lo abbiamo più. È piuttosto triste». Il naufragio politico, tutto interno al perimetro dei democratici, rende meno percorribile la promessa di Biden di dimezzare le emissioni nel 2030, considerando il 2005 come data di inizio del calcolo.

In una nota Manchin ha espresso la sua «preoccupazione sull’impiego di soldi dei contribuenti per aiutare aziende private a fare quello che già stanno facendo». Più esplicita sulle ragioni del dissenso l’altra senatrice dello stato, la repubblicana Shelley Moore Capito: il programma sull’energia pulita «è concepito per eliminare il carbone e il gas naturale, cosa che sarebbe assolutamente devastante per il mio stato». 

La West Virginia è il secondo stato americano per l’estrazione del carbone, un’intercapedine montana del sud dove le logiche politiche sono alterate rispetto a quelle nazionali. I democratici dello stato votano tranquillamente candidati repubblicani alla Casa Bianca.

John Fitzgerald Kennedy diceva che «chiunque voglia diventare presidente deve venire nella West Virginia» in campagna elettorale. Biden non c’è andato a causa della pandemia, ma non sarebbe stato accolto con grande giubilo in uno stato di solida tradizione operaia dove Donald Trump ha preso il 68,6 per cento dei voti nel 2020, in leggero incremento rispetto a quattro anni prima. È da questi elettori che dipende la sopravvivenza politica di Manchin.

Indebolito alla Cop 26

Il fallimento del programma sulla transizione energetica è una ferita alla credibilità di Biden in vista della Cop 26. Il piano era presentarsi a Glasgow fra due settimane mostrando il programma energetico come prova che la prima potenza inquinante del mondo sta davvero cambiando rotta, mentre il presidente ci arriverà come latore di buoni propositi senza seguito concreto e come leader che sulla questione verde non riesce nemmeno a disciplinare il proprio partito. Le potenze riottose verso la transizione avranno buon gioco a usare l’inazione americana per giustificare la propria.

La fine del sogno di Roosevelt

L’inciampo politico-climatico di Biden va letto nel contesto più ampio della sua crisi di leadership. Il progetto rooseveltiano di riformare il sistema di welfare è già svanito.

La riforma da 3.500 miliardi di dollari complessivi si è già ridotta di un terzo e la flebile maggioranza democratica al Congresso non è in grado di governare sé stessa, figurarsi di reggere le pressioni per ridurre ancora la spesa che avrebbe dovuto cambiare l’assetto della società americana in modo irreversibile.

Biden ha esplicitamente paragonato le sue riforme al New Deal di Franklin Delano Roosevelt,  e aveva riecheggiato le parole del suo leggendario predecessore nel discorso sullo Stato dell’unione ad Aprile: «Dobbiamo dimostrare che la democrazia funziona ancora».

Gli eventi di questi giorni ricordano a Biden che la democrazia funziona ancora, ma è fatta anche dal potere legislativo e il sostegno del Congresso è cruciale per varare qualunque riforma, specialmente quelle particolarmente ambiziose.

Afferrato che il paragone con il New Deal era effettivamente rischioso, i democratici hanno ripiegato, per dir così, sulla “great society” di Lyndon Johnson, evocando la stagione legislativa in cui il Congresso ha introdotto l’assistenza sanitaria per anziani e poveri, ha messo il sigillo sul diritto di voto per le minoranze, ha dato finanziamenti massicci alle scuole pubbliche, introdotto leggi per la protezione ambientale, riformato l’immigrazione, creato nuovi dipartimenti governativi e molto altro. 

Il crollo dei consensi

Johnson allora controllava con disciplina quasi militare il Congresso.  Nonostante le conquiste, due anni più tardi, alle elezioni di midterm, i democratici hanno perso 3 senatori e 47 deputati, cosa che ha di fatto chiuso la stagione delle riforme. Biden non gode nemmeno delle condizioni della prima parte dell’Amministrazione Johnson e il suo tasso di gradimento è precipitato dalle parti di quello di Trump.

Secondo le analisi di FiveThirtyEight, il 49 per cento degli americani disapprova l’operato presidenziale, mentre solo il 44 per cento è favorevole. Gli stessi analisti spiegano che l’effetto del disastroso ritiro dall’Afghanistan, ormai svanito dalla memoria dell’elettorato introflesso americano, non è il fattore determinante del crollo, che invece va ricercato nella gestione della pandemia e della ripresa economica.

Su questi due temi cruciali l’operato di Biden non è mai stato particolarmente gradito, anche prima che arrivasse il senatore Manchin a rovinargli la festa verde. 

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