I leader repubblicani accusano il presidente Joe Biden di condurre una guerra contro l’industria energetica statunitense, una tesi sostenuta anche dai colossi del settore nonostante i loro profitti – più che triplicati negli ultimi tre anni – e la realtà dimostrino esattamente il contrario. Biden infatti ha agito in continuità con i suoi predecessori, e spinto dalla necessità di affrontare le conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina ha fatto diventare gli Stati Uniti un attore dominante del mercato globale del gas e del petrolio, completando un ciclo iniziato molto tempo fa.

Superpotenza

Dopo aver passato decenni a importare dall’estero enormi quantità di risorse energetiche, a partire dal 2019 gli Stati Uniti sono diventati pienamente autosufficienti grazie a una rivoluzione energetica resa possibile dallo sviluppo delle tecnologie del fracking e dello shale, iniziata con Barack Obama e portata a termine da Donald Trump. L’anno scorso gli Stati Uniti sono diventati il più grande produttore di greggio al mondo, in grado di estrarre 13,2 milioni di barili al giorno, che rappresentano quasi un quinto della produzione mondiale di petrolio.

Un discorso simile vale per l’industria del gas, che ha raggiunto livelli record di produzione per soddisfare l’aumento improvviso della domanda europea, facendo diventare gli Stati Uniti il secondo esportatore in Europa dopo la Norvegia. L’anno scorso le esportazioni statunitensi di gas naturale liquefatto (Gnl) hanno superato quelle dell’Australia e del Qatar, con volumi destinati a crescere per soddisfare il fabbisogno dei paesi europei in cerca di alternative al gas russo, come Italia e Germania. Lo sviluppo delle fonti fossili non ha distratto Washington dall’impegno nell’aumento della produzione da rinnovabili, che rimane dominante nella nuova capacità di generazione di corrente elettrica. Secondo il World Resource Institute, nel 2023 è stato raggiunto il livello record nell’istallazione di energia da fotovoltaico, un aumento del 55 per cento rispetto al 2022.

In sintesi, l’America sta diventando lentamente – ma inesorabilmente – la principale superpotenza energetica del mondo, un risultato che avrà degli importanti risvolti geopolitici.

La quota di mercato conquistata dagli Stati Uniti ha privato la Russia e l’Arabia Saudita del potere di influenzare i prezzi globali, in particolare nel caso del petrolio. Ciò è stato evidente all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, quando le esportazioni di gas e petrolio statunitensi hanno svolto un ruolo determinante nella stabilizzazione dei mercati e nel rafforzare la sicurezza energetica europea. L’offerta di petrolio statunitense ha tenuto i prezzi del greggio relativamente sotto controllo di fronte alla politica dei tagli alla produzione con cui l’Opec allargato alla Russia (Opec+) cercava di gonfiare le quotazioni, ridimensionandone il ruolo. Oggi il cartello dei paesi produttori controlla meno della metà dell’offerta globale di petrolio, e non è più in grado di determinare i prezzi.

Perché non se ne parla

La caratteristica di questa rivoluzione energetica è che non viene raccontata granché, soprattutto in America. Non ne parlano i repubblicani, non fa parte della campagna elettorale di Biden, ha poca risonanza nei mass media.

Le ragioni sono legate alla politica interna. La posizione dei repubblicani è facilmente comprensibile, non vogliono sottolineare il boom energetico raggiunto da Biden per non contraddire sé stessi, visto che da anni accusano i democratici di sacrificare l’indipendenza energetica, la sicurezza nazionale e l’economia del paese per una crociata a somma zero per salvare l’ambiente.

Anche i democratici e la Casa Bianca però nascondono i risultati della politica energetica di Biden, principalmente per non aumentare il proprio imbarazzo di fronte alle proteste dei movimenti ambientalisti e per non contraddire i proclami sull’impegno per la transizione verde. Negli ultimi due anni Biden ha fatto marcia indietro rispetto alle promesse elettorali di tagliare la produzione di combustibili fossili, e ha esortato le compagnie a estrarre più petrolio per contrastare l’aumento dei prezzi causato da Vladimir Putin. L’amministrazione Biden ha rilasciato un numero maggiore di permessi per l’estrazione di petrolio e gas su terreni pubblici rispetto a Trump, causando le ire degli ambientalisti. Pertanto, i risultati da record dei combustibili fossili vengono considerati dai democratici una capitolazione (per non dire un tradimento) rispetto agli obiettivi per la riduzione delle emissioni.

La posizione di Manchin

Tuttavia, c’è chi sostiene che la Casa Bianca e gli attivisti per il clima dovrebbero tenere a mente che anche se l’estrazione di petrolio e gas aggrava il cambiamento climatico nel breve termine, l’alternativa a più petrolio e gas statunitensi non è una quantità maggiore di energia pulita, ma più petrolio, gas e carbone stranieri, e quindi una quantità uguale o superiore di emissioni.

A pensarla così è il senatore democratico Joe Manchin, eletto in West Virginia, che in un editoriale sul Washington Post sottolinea che Biden dovrebbe rivendicare apertamente i risultati della rivoluzione energetica statunitense senza temere che ciò contraddica gli obiettivi climatici.

Secondo Manchin la domanda di combustibili fossili non sparirà nel prossimo futuro, e aumentare la produzione di gas e petrolio mentre al contempo si investono centinaia di miliardi di dollari per rendere l’energia pulita più economica non è in contraddizione con l’agenda climatica, a patto che accettare emissioni leggermente più alte oggi corrisponda ad avere emissioni molto più basse domani.

Un compromesso difficile da stabilire, ma forse è da esso che dipende il successo nel lungo periodo delle ambiziose agende verdi che vengono promesse agli elettori delle due sponde dell’Atlantico.

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