Il presidente Macron si è irritato per il fallimento del premier libanese incaricato Adeeb. «Un tradimento da parte dei partiti», ha detto. Dal suo – e dal nostro – punto di vista ha ragione: i partiti comunitari libanesi, in particolare gli hezbollah sciiti, non lasciano la presa sull’esecutivo.

L’idea di un gabinetto composto da personalità competenti non scelte per la loro affiliazione comunitaria era assolutamente rivoluzionaria in un paese costruito su base etno-religiosa. La piazza di Beirut lo chiedeva: si è cittadini perché individui provvisti di diritti e non perché membri di una comunità. Tale è la civiltà giuridica occidentale, ma a Beirut non ha funzionato. Non è una sorpresa: si deve ammettere che il ripiegamento comunitario (comunque lo si chiami) sta divenendo la cifra dei nostri tempi.

Anche in occidente la sfida del comunitarismo è d’attualità. Dovunque in Europa sorgono richieste di gruppi e comunità di vario tipo che vogliono vedersi riconoscere “diritti comunitari”. In oriente si tratta di una tradizione consolidata: si conta in quanto parte di qualcosa. Nemmeno l’universalismo islamico riesce a limitare il particolarismo etno-religioso di innumerevoli popoli, come ad esempio i pashtun afghani ma anche i berberi del più moderno nord Africa o i punjabi indo-pakistani e così via.

L’induismo è percorso da tensioni comunitarie che lo hanno reso in anni recenti antagonista delle minoranze cristiana e musulmana. Così il buddismo e così via. Tale tendenza la ritroviamo nei localismi regionali un po’ dovunque nel mondo, nel moltiplicarsi di fenomeni settari di ogni specie, nelle ideologie separatiste di tipo etnico come il suprematismo bianco, in derive comunitarie nativiste ecc.

La paura dell’altro

Il mondo della globalizzazione si divide: si tratta di un riflesso quasi automatico davanti al caos e alle trasformazioni violente. Per tutti il rifugio sono le solidarietà primarie: innanzitutto quella etnica; poi quella religiosa se funzionale (infatti non tutte le religioni lo consentono).

Se questo non basta si creano di sana pianta solidarietà settarie e/o ideologiche allo scopo di identificarsi. Per tali ragioni non desta sorpresa se in medio oriente, una terra composita fin dall’antichità e sconvolta da innumerevoli guerre, le persone oggi vivono una forte tentazione di ripiego comunitario.

La leva che fa scattare tale atteggiamento è sempre la stessa: la paura dell’altro, in genere del vicino. In Libano tale paura è particolarmente forte e accresciuta dal dramma siriano che si è srotolato davanti agli occhi di tutti. Per un paese costruito su un accordo tra minoranze è terrificante vedere come nel vicino più solido e potente, il tessuto comunitario si sia spezzato e sia divenuto una trappola micidiale.

I tanti profughi siriani in Libano sono lì a ricordare ai libanesi che mettere in crisi tale fragile equilibrio potrebbe diventare estremamente pericoloso. Di conseguenza: niente avventure. Al posto del “nuovo patto nazionale” proposto da Macron, molti ora pensano a una riedizione del patto fra comunità, difficile da negoziare ma considerato come un “usato sicuro”.

Così vicini, così lontani

In questo periodo di tensione dovuta alla crisi economica, a cui si è aggiunta la terribile esplosione di agosto nel porto della capitale, il Libano è percorso da una ripresa dei sentimenti di appartenenza comunitaria che sembra essere rimasta l’unica forma di solidarietà su cui contare. Fratelli-nemici: questo potrebbe definire oggi il Libano, stretto tra paura dell’altro e paura dell’ignoto.

La fine della Siria è un allarme. A Beirut ci si è sempre considerati in funzione di Damasco: una specie di amara relazione tra fratellastri che si odiano ma sanno di essere simili. La Siria stessa ora vive un ripiegamento etno-comunitario a causa dell’immane distruzione della guerra. Gli alawiti vincitori si comportano da minoranza dominante, impossessandosi di molti spazi. I sunniti sono circondati da un clima di sospetto e spesso sono respinti se tornano.

Le altre comunità reagiscono come possono: gli sciiti occupano villaggi anche se molti fra loro non sono siriani e la presenza iraniana comincia a pesare a tutti. I cristiani rimasti si stringono attorno alle chiese dei loro centri sperando nella buona volontà di chi ha il potere; così gli yezidi e gli altri.

Ognuno deve fare da sé e in tanto caos l’unica certezza resta ancora la propria comunità. I libanesi osservano e torna loro in mente la guerra civile (1975-1990): un disastro da non ripetere. Sperano che Hezbollah non voglia portare la tensione fino a quel punto: sarebbe una rovina per tutti.

Di chi fidarsi

È un continuo gioco di specchi tra Damasco e Beirut: i leader confessionali sembrano non tramontare mai. Anche i protettori esterni in realtà non sanno più cosa fare.

L’Arabia Saudita ha visto saltare l’accordo di Taef che sponsorizzò e ora teme la concorrenza turca. Teheran fa planare a sua ombra ovunque ma manca di risorse. Europei e americani non hanno più alleati. I russi sono già troppo impegnati in Siria.

A Beirut tutti criticano il sistema politico ma nessuno ha il coraggio di cambiarlo. A Damasco molti, anche se più sommessamente, riconoscono le tare del regime di Assad ma nessuno ha il coraggio di abbandonarlo.

«Meglio il diavolo che conosci che quello che non conosci» sembrano dire le minoranze siriane strette alla più forte tra di esse, gli alawiti. Un ragionamento che in Libano comprendono. Chi si fiderà più dei sunniti (erano il 60 per cento prima della guerra) rivelatisi tanto irresponsabili da mandare la Siria in malora? Certo non tutti i sunniti sono colpevoli ma ciò conta poco quando si è abituati a ragionare in termini comunitari.

L’acceso nazionalismo siriano ha mostrato la sua vacuità: era solo propaganda contro Israele. Ciò che ha sempre contato davvero erano e restano le afflizioni etno-religiose. In Iraq in fondo non è accaduto lo stesso a causa delle idiosincrasie occidentali? Nella prima guerra del Golfo costoro avevano lasciato gli sciiti in balia dei sunniti di Saddam (pur perdenti); nella seconda hanno fatto esattamente l’opposto: di chi fidarsi se non alla fine solo di sé stessi? In tale situazione kafkiana aggrapparsi ai propri simili sembra l’unica cosa da fare.

Libano e Siria vivono oggi una schizofrenia parallela: tutti sanno che i propri leader sono corrotti e anche crudeli ma, visto che lo stato non c’è, ognuno sente di averne ancora bisogno per sopravvivere. Paradossalmente la globalizzazione ha accelerato tale assurdo processo. La sfida resta sempre la stessa dovunque: urge costruire il quadro comune della convivenza.

© Riproduzione riservata

© Riproduzione riservata