La grande strategia diplomatica di Joe Biden per restaurare l’ordine mondiale a trazione americana procede senza intoppi verso l’inconcludenza.

Il presidente americano arriva al vertice virtuale del 7 dicembre con il presidente russo, Vladimir Putin, in una posizione di debolezza e con gli occhi puntati sull’unico quadrante che interessa alla Casa Bianca in questa fase, quello Indo-Pacifico, fatto ben noto a Putin, che infatti si premura sempre di ricordare che l’alleanza militare con Pechino è «indistruttibile».

La Russia ha ammassato quasi 100mila soldati sul confine dell’Ucraina, dove è in corso un conflitto a bassa intensità che negli anni ha fatto almeno 15mila morti, e gli analisti americani ritengono che gli spostamenti di truppe potrebbero essere il preludio di un’azione militare imminente.

La Cia monitora con preoccupazione le manovre al confine almeno da ottobre, ma è anche da prima che l’amministrazione è avvertita dei movimenti. All’inizio di settembre Biden ha promesso al presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, uno stanziamento di 60 milioni di dollari in aiuti militari all’Ucraina per rispondere a un «significativo incremento delle attività militari russe sul confine», una frazione dei 125 milioni totali promessi e temporaneamente congelati per non infastidire troppo Putin prima del precedente incontro con il presidente americano.

L’inesistente linea rossa

Ora Biden dice che sarà «molto, molto difficile» per Putin «fare quello che la gente teme che possa fare», ma alla richiesta di una posizione più specifica il segretario di Stato, Antony Blinken, ha soltanto detto che «qualunque azione di escalation o aggressiva sarebbe fonte di grave preoccupazione».

In altre parole, gli Stati Uniti non hanno fissato nessuna “linea rossa” e non hanno detto cosa accadrà nel caso la Russia proceda effettivamente a un’offensiva articolata in territorio ucraino, scenario che riporta alla mente gli anni di Barack Obama, insuperato specialista nell’annunciare linee rosse che sono state puntualmente varcate senza vere conseguenze, al netto di sanzioni alla Russia tutto sommato modeste e di altrettanto modesti finanziamenti militari all’Ucraina.

Espansione della Nato

Il contesto in cui nel 2014 si è consumata l’annessione della Crimea da parte della Russia non è cambiato di molto. A questo vanno aggiunti almeno due elementi.

Il primo: il debole impegno americano verso l’Ucraina ha indotto Kiev a cercare sostegno militare altrove. La Turchia di Recep Tayyp Erdogan ha venduto droni all’esercito ucraino per difendersi dall’aggressività russa, e proprio in questi giorni si è scoperto che gli affari militari turchi con il paese sono molto più ampi di quanto si pensasse.

Il vuoto americano viene riempito per una legge di natura geopolitica, e capita spesso che a farlo siano «dittatori con i quali bisogna pur cooperare», come da definizione di Mario Draghi. Il secondo elemento riguarda le dure sanzioni al gasdotto North Stream 2 – progetto russo-tedesco – a lungo invocate dall’Ucraina e mai messe davvero in pratica da Washington, che si è limitata a sanzionare una nave cargo e una società controllata surrettiziamente dal Cremlino, azione molto più circoscritta rispetto ai desideri di Zelensky, che aveva sperato che gli americani bloccassero il progetto.

Putin arriva al summit virtuale con un obiettivo più definito e abbordabile. Vuole che gli Stati Uniti diano garanzie che l’Ucraina non sarà ammessa nella Nato, cosa che le autorità ucraine da mesi invocano con procedura urgente, e più in generale chiede impegni per evitare un ulteriore allargamento a est dell’alleanza.

Biden non ha il minimo interesse a forzare un allargamento della Nato, questione ferocemente dibattuta dalla fine della Guerra fredda, quando l’establishment che aveva concepito la dottrina del contenimento vedeva l’espansione come un errore tragico, poi puntualmente commesso sull’onda dell’entusiasmo clintoniano.

Gli anni della «Nato obsoleta» di Donald Trump e di quella «clinicamente morta» di Emmanuel Macron hanno allontanato ancora di più i vecchi concetti internazionalisti, e Biden si muove nello schema del pragmatismo obamiano, che è in linea di continuità con l’isolazionismo da “America first” di Trump.

Qui sta l’asimmetria fra gli interessi geopolitici dei due interlocutori: Putin vuole la formalizzazione di una cosa che Biden sta già tranquillamente concedendo nei fatti; Biden vuole evitare un’escalation al confine, ma non è pronto a promettere conseguenze decise e stringenti se questa avverrà.

Iran e Cina

Anche gli altri dossier fondamentali dicono che l’“America is back” di Biden è uno slogan più che un cardine della politica estera.

I negoziati con l’Iran sul nucleare a Vienna si sono interrotti quando i negoziatori iraniani si sono rimangiati tutti i compromessi che avevano accettato per rivitalizzare l’accordo negoziato da Obama nel 2015 e stracciato da Trump nel 2018.

Sul fronte cinese, centro di gravità permanente delle preoccupazioni di Biden, nei giorni scorsi il segretario della Difesa, Austin Lloyd, ha detto che le attività militari nei pressi di Taiwan «sembrano esercitazioni» per testare le «reali capacità militari di Pechino», che sul mar cinese meridionale sta facendo, con le dovute proporzioni, manovra analoghe a quelle della Russia sul fronte ucraino.

È notevole anche l’assonanza fra le argomentazioni ideologico-politiche usate da Russia e Cina per affermare la propria sovranità rispettivamente su Crimea e Taiwan. A luglio Putin ha pubblicato sul sito del Cremlino un saggio che giustifica l’espansionismo russo con il legame ancestrale – di tipo culturale, politico e religioso – fra le due terre, questione che ricalca la giustificazione del regime della politica “one-China” su Taiwan.

La debolezza strutturale della posizione americana dovrebbe essere bilanciata, nei piani di Biden, da un movimento per stimolare una rinnovata alleanza fra le democrazie, chiamate però ad assumersi responsabilità troppo spesso affidate alla protezione di un ombrello americano che si è fatto nel tempo più piccolo e inadeguato alle tempeste geopolitiche del momento.

In questo spirito Biden ha convocato per la settimana prossima il “Summit for Democracy”, consesso ampiamente sbandierato dall’amministrazione per promuovere forme di collaborazione globale contro i nemici della democrazia. Peccato che Washington abbia convocato molti paesi di dubbia vocazione democratica, come le Filippine, e altri di manifesta fede autoritaria, come la Repubblica Democratica del Congo.

Non un grande inizio per un vertice che ruoterà sulla «difesa dall’autoritarismo», il «contrasto alla corruzione» e la «promozione dei diritti umani».

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