La sentenza emessa questo martedì da una corte d’appello svedese è un passo avanti importantissimo nella lotta all’impunità attraverso l’esercizio della giurisdizione universale. Si tratta del principio - seguito da alcuni altri stati europei, tra i quali Francia e Germania, ma non ancora dall’Italia - per cui gli organi giudiziari interni possono avviare indagini e svolgere processi per fatti avvenuti fuori dal territorio nazionale, riguardanti imputati e vittime stranieri.

Hamid Nouri, un ex funzionario della sicurezza iraniana, arrestato nel novembre 2019 in territorio svedese, è stato definitivamente condannato all’ergastolo, riconosciuto colpevole del “massacro delle prigioni” avvenuto in Iran nel 1988, quando migliaia di oppositori politici vennero sommariamente uccisi in varie carceri del paese. Nouri, in particolare, fu coinvolto nelle esecuzioni di massa del carcere di Gohardasht, a Karaj. Tra i sospettati di aver redatto le liste dei prigionieri da eliminare c’è anche l’attuale presidente iraniano, Ebrahim Raisi.

La lentezza della giustizia

Il verdetto era atteso da 35 anni dai sopravvissuti e dai parenti delle vittime. Dal 1988 le autorità iraniane non restituiscono alle famiglie un solo corpo delle vittime del “massacro delle prigioni” e portano avanti una politica non solo di sistematica negazione di quanto accaduto ma anche di persecuzione nei confronti dei parenti che organizzano commemorazioni o pretendono di conoscere l’ubicazione delle fosse comuni dove sospettano siano stati sepolti i loro cari.

Attraverso la consueta prassi di arrestare cittadini occidentali per ottenere dai rispettivi governi vantaggi sul piano politico, economico o di altra natura, le autorità iraniane hanno tentato a più riprese di condizionare l’esito del processo svedese.

Da Stoccolma a Torino

Ormai da oltre sei anni si trova nel braccio della morte della prigione di Evin Ahmadreza Djalali, un esperto in Medicina di emergenza con passaporto svedese che ha svolto ricerca per anni presso l’Università del Piemonte Orientale, a Novara. Arrestato nel 2016 quando era stato invitato a recarsi in Iran per un congresso, a Djalali è stato proposto di fare la spia contro Israele. Al rifiuto, è stato arrestato, processato e condannato a morte per spionaggio in favore di Israele.

Il 4 maggio 2022, dopo che la pubblica accusa svedese aveva chiesto l’ergastolo per Nouri, organi d’informazione statali dell’Iran avevano annunciato come imminente l’esecuzione di Djalali, aggiungendo che «eseguendo la condanna a morte, il governo dell’Iran impedirà al governo della Svezia di intraprendere ulteriori analoghe iniziative come la detenzione di Nouri».

Il ricatto iraniano

Nelle settimane che hanno preceduto il processo d’appello nei confronti di Hamid Nouri, c’è stata una svolta negativa nei confronti di un altro cittadino svedese: si tratta di Johan Floderus, ex diplomatico dell’Unione europea. Arrestato il 17 aprile 2022 all’aeroporto di Teheran, dopo oltre 600 giorni di detenzione preventiva, è stato accusato di «estesa cooperazione d’intelligence col regime sionista» e «corruzione sulla Terra», un reato “pigliatutto” - al pari di quello denominato «inimicizia contro Dio» - col quale vengono punite le minacce alla sicurezza nazionale, usato regolarmente contro dissidenti, giornalisti e difensori dei diritti umani.

In diversi casi il “ricatto” iraniano ha dato esiti positivi: il 26 maggio di quest’anno, dopo 445 giorni di detenzione, è stato liberato il cooperante belga Olivier Vandecasteele che stava scontando una condanna a 40 anni e a 74 frustate sempre per spionaggio. In cambio, l’Iran ha ottenuto la scarcerazione di Asadollah Asadi, un ex diplomatico iraniano che stava scontando una condanna a 20 anni in Belgio per terrorismo.

In precedenza, il 16 marzo 2022 le autorità iraniane avevano autorizzato l’operatrice umanitaria britannica Nazanin Zaghari-Ratcliffe a lasciare l’Iran dopo che il governo del Regno Unito aveva versato a quello iraniano quasi 400 milioni di sterline per sanare una disputa su un debito. La donna era stata trattenuta dalle autorità iraniane per sei anni.

Le autorità iraniane, in definitiva, si stanno rendendo responsabili di palesi violazioni della Convenzione internazionale contro la presa di ostaggi, che definisce tale la detenzione di persone accompagnata da minacce di uccisione, ferimento o prolungamento della detenzione fino a quando una terza parte non accetterà determinate condizioni, che possono essere stabilite in modo esplicito o implicito.

© Riproduzione riservata