«Vi trasferiamo per proteggervi e per preservare l’habitat naturale e la biodiversità»: con questa narrazione ingannevole, da oltre 60 anni, le autorità della Tanzania si accaniscono contro parte della popolazione, i nativi masai. Il primo sgombero dei masai, dal parco nazionale del Serengeti verso la zona di Loliondo, le il governo lo ordinò già nel 1959.

Che i veri obiettivi fossero altri - trarre vantaggio economico dal turismo e dai safari sulle terre ancestrali masai - emerse chiaramente già allora ma ancora di più nel 2009. Quell’anno, senza ottenere il loro consenso preventivo e informato - come richiesto dal diritto internazionale - il governo di Dar es Salaam iniziò a limitare le attività dei masai, prevalentemente dediti all’allevamento e alla pastorizia, in una serie di cosiddette “aree protette” nelle quali vivevano da generazioni. Quei provvedimenti lasciarono decine di migliaia di masai privi di mezzi di sostentamento. Il meccanismo era perfettamente oliato: rendere la vita impossibile in un’area per obbligare i masai a trasferirsi in un’altra e ripetere la stessa sequenza di azioni.

Altri sgomberi forzati, infatti, seguirono nel 2013 e nel 2019 dai villaggi di Ololosokwan, Olirien, Kirtalo e Arash. Nel frattempo, lo stato aveva assegnato alla Otterlo Business Corporation, una compagnia privata degli Emirati Arabi Uniti, una licenza per svolgere attività turistiche, compresi i safari.

L’accordo sarebbe stato sciolto, secondo fonti ufficiali, nel 2017. Secondo altre, nonostante le denunce di corruzione, l’azienda emiratina sarebbe ancora all’opera. Poi, un anno fa, l’assalto finale. Il 7 giugno 2022 centinaia di funzionari di varie agenzie di sicurezza si mossero, in un lungo corteo di motociclette, verso Loliondo. Siamo nel distretto di Ngorongoro, nella regione settentrionale di Arusha, nota al mondo per aver ospitato la sede del Tribunale penale internazionale per il genocidio del Ruanda. Ma questa è una storia assai meno nobile.

Gli sgomberatori si accamparono nel villaggio di Ololosokwan e iniziarono a delimitare e picchettare una zona di 1500 chilometri quadrati.

I masai arrivati sul posto per protestare contro quella delimitazione vennero affrontati con la forza e a loro volta reagirono: quaranta masai furono feriti e un loro capo, l’84enne Oriaisi Pasilance Ng’iyo, sparì nel nulla dopo che gli avevano sparato a entrambe le gambe. Un agente di polizia venne ucciso. Testimoni oculari denunciarono la morte di molti masai ma questo, a distanza di un anno, rimane ancora uno dei lati oscuri della vicenda. Tre giorni dopo, il 10 giugno, era tutto finito: 70.000 masai sgomberati con la forza dai loro pascoli.

Per tutta la durata dello sgombero, venne impedito ai giornalisti e alle organizzazioni non governative di entrare nella zona. Molte famiglie masai si diedero alla macchia, altre fuggirono a Naok, nel Kenya meridionale: oggi si trovano lì almeno 60 nuclei familiari. All’inizio di luglio 27 masai vennero incriminati per l’omicidio del poliziotto: 10 di loro erano stati arrestati il giorno prima… Ne furono poi arrestati altri 132. Il motivo? Si trovavano illegalmente nel loro paese. L’arbitrarietà di questi arresti emerse quando i 159 masai furono scarcerati.

Ma, nel frattempo, non pochi di loro avevano dovuto vendere il bestiame per pagare le spese legali. Altro denaro fu sborsato per “riscattare” le mandrie che, senza più controllo, erano rimaste nei terreni requisiti. Le bestie non recuperate furono poi messe all’asta. Così oggi, migliaia di masai impoveriti vivono in miseri tuguri. I loro volti, una volta fieri e per questo degni di una foto-ricordo dal sapore colonialista, non sono più un’attrattiva per i turisti né buoni per una cartolina da usare a scopo di propaganda.

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