Nella sua devastante testimonianza davanti alla commissione d’inchiesta sul 6 gennaio 2021, Cassidy Hutchinson, una giovane assistente di Mark Meadows, ex capo di gabinetto di Donald Trump, ha dato conto con precisione e linguaggio vivido di reazioni, decisioni e intenzioni del presidente e della cerchia dei suoi consiglieri durante lo svolgersi della giornata che si è conclusa con l’assalto di Capitol Hill.

Non è però l’aggiunta di nuovi dettagli che permettono una più chiara ricostruzione degli eventi l’elemento dirompente della testimonianza. Quello che fa la differenza è che le parole di Hutchinson aprono la strada per l’incriminazione di Trump, cosa che fino a ieri sembrava imrpobabile o da escludersi. Il racconto dell’assistente dà una nuova qualità criminale alla vicenda.

Uno dei passaggi decisivi del racconto di Hutchinson riguarda il momento in cui il presidente, imbufalito perché lo spazio sotto al palco dovre avrebbe parlato appariva vuoto, chiede di rimuovere i metal detector usati per controllare i manifestanti. 

L’assistente ha riportato così le parole di Trump: «Non me ne frega un cazzo se hanno delle armi. Non sono venuti per fare del male a me. Togliete quei cazzo di metal detector. Lasciate entrare la mia gente. Possono marciare verso il Capitol da qui. Fate entrare la gente. Togliete quei cazzo di metal detector».

La commissione dovrà naturalmente verificare la ricostruzione di Hutchinson, ma se è andata come l’assistente dice Trump sapeva non solo che c’era gente armata fra i suoi sostenitori, ma che questi non avrebbero messo in pericolo la sua sicurezza e, questione cruciale, dopo il dicorso avrebbero marciato verso Capitol Hill.

Allo stesso modo, secondo la ricostruzione di Hutchinson, alla fine del comizio, una volta salito sull’auto presidenziale, Trump ha chiesto di essere portato al Campidoglio, arrivando a litigare con il capo della sicurezza e perfino a tentare di abbrancare il volante dell’auto per impedire che lo riportassero alla Casa Bianca.

Trump, insomma, voleva essere personalmente alla testa di una folla armata che aveva deliberatamente mobilitato per impedire al Congresso di certificare il risultato delle elezioni presidenziali.

Le responsabilità morali e politiche dell’assalto a Capitol Hill sono sempre state chiaramente da attribuire a Trump. Ma le responsabilità legali sono più elusive. Certo, l’ex presidente aveva apertamente incitato i sostenitori a «combattere», ma aveva anche detto loro di farlo in maniera «pacifica e patriottica», specifiche che sono decisive per stabilire le possibilità di avviare un’azione legale. Alla fine, soltanto chi commette l’atto di assalire può essere chiamato a renderne conto.

L’ordinamento degli Stati Uniti prevede uno spazio ampio per la libertà di parola, anche laddove si avvicini al confine con l’incitamento alla violenza. Il precedente che fa scuola in materia è la sentenza del 1969 Brandenburg v. Ohio, con cui la Corte suprema ha scagionato un leader del Ku Klux Klan che era stato condannato per aver «invocato il dovere e la nacessità di usare metodi violenti e illegali di sabotaggio e terrorismo».

La Corte ha decretato che le (molte e ripetute) circostanze in cui Brandenburg aveva incitato i suoi a commettere crimini erano protette dalla libertà di parola prevista dal Primo emendamento, e ha stabilito un principio generale che rimane valido fino al caso di Trump: l’incitamento, scrivevano i giudici, deve essere «diretto ad incitare o a produrre azioni illegali imminenti, ed è probabile che le produca».

Per distinguere fra un discorso reprensibile ma legittimo e un crimine occorre dunque valutare l’intenzione di chi parla, l’imminenza dell’evento illegale e le probabilità che questo effettivamente si verifichi. 

La straordinaria testimonianza di Cassidy Hutchinson ha aperto la possibilità che le rigorose condizioni per una presecuzione criminale di Trump siano soddisfatte. 

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