Il 24 giugno 1859 Henri Dunant assiste ai combattimenti della battaglia di Solferino e San Martino, e nelle ore e nei giorni successivi vede in prima persona le devastazioni nelle case e nelle campagne, e soprattutto le agonie e le sofferenze dei feriti lasciati abbandonati sul campo, senza un soccorso sanitario adeguato.

Dunant decide di pubblicare perciò il suo Souvenir di Solférino, una vibrata denuncia contro le atrocità delle guerre. Da quell’esperienza nacque un movimento di opinione transnazionale che portò all’idea moderna del Diritto Internazionale Umanitario (Diu) e del Movimento Internazionale della Croce Rossa.

Iniziava un percorso che dalla prima Convenzione di Ginevra (1864) avrebbe portato allo Statuto della Corte penale internazionale (1998), per affermare principi di diritto e di giustizia universali che avrebbero sancito l’obbligo di limitare l’uso della violenza bellica e di assicurare in ogni conflitto armato il “rispetto” e la “protezione” di chi non partecipa alle ostilità: la popolazione civile, i feriti, i malati, i naufraghi e i prigionieri di guerra.

È triste constatare quanto sta ancora accadendo sugli scenari della guerra in Ucraina. Il rischio incombente è quello di una assuefazione alle immagini delle devastazioni e delle uccisioni, che si susseguono implacabili. Le ultime vicende della guerra richiedono perciò una riflessione sul livello di violenza bellica che l’aggressore continua ad esprimere, al di là di ogni lontana previsione consentita sia dallo ius ad bellum che dallo ius in bello.

Nessuno sembra più evocare le stragi dei civili, le fosse comuni e i saccheggi di Bucha e delle altre città ucraine su cui si è scatenata la viltà del nemico. Ma a questa progressiva perdita di senso è fondamentale non rassegnarsi.

Di fronte agli scenari drammatici della guerra in Ucraina, e anche al ruolo di una Corte penale internazionale che stenta ad affermarsi, si fa presto oggi ad esprimere solo pregiudizi sulla mancanza di effettività di norme fondamentali del diritto internazionale. Il vulnus non può essere però motivo per considerarle come speculazioni teoriche, troppo spesso contraddette dalla realtà della condotta della guerra.

Si tratta di un approccio che non regge di fronte alla più semplice delle constatazioni: nonostante sistemi normativi ampiamenti riconosciuti e apparati di polizia e giudiziari chiamati a farli rispettare, tutti gli ordinamenti giuridici, inclusi quelli penali statali, di fatto devono confrontarsi quotidianamente con la loro sistematica violazione.

Ne deve conseguire perciò la convinzione che per ogni tipologia di “diritto” o di “legge” è di per sé elemento fisiologico e costitutivo che il principio di effettività debba costruirsi giorno per giorno in azioni coerenti delle “comunità di diritto”, in una sorta di volontarietà solidale che sola può superare l’eterno conflitto insito nella norma.

Humanitarian International Law

La riflessione su questi temi rischia in ogni caso di rimanere vaga se non si comprende il senso di un percorso sofferto che si è compiuto almeno negli ultimi tre secoli, a partire proprio da quel Souvenir di Solferino.

Il messaggio di Dunant ebbe una vasta eco e attorno all’imprenditore ginevrino si formò un gruppo di filantropi, la Società Ginevrina di utilità pubblica, di cui i principali animatori furono un giurista, l’avvocato Gustave Moynier, un militare, il generale-ingegnere Henri Dufour che aveva militato nell’esercito francese, e due medici, Louis Paul Amédée Appia e Theodore Maunoir. Il "Comitato di Cinque” arrivò ad una iniziativa che ancora oggi apparirebbe velleitaria: fu inviata una lettera a tutti i contatti influenti del loro network ante litteram per convocare una Conferenza internazionale allo scopo di deliberare misure per assicurare il soccorso ai feriti in guerra attraverso una organizzazione imparziale e indipendente.

Da quella iniziativa di carattere privato seguì l’impulso ufficiale della Confederazione elvetica: la Conferenza Internazionale di Ginevra indetta dall’ 8 al 20 agosto 1864 vide l’adozione della prima Convenzione di Ginevra del 1864 per il miglioramento dei militari feriti in guerra. Si sanciva la nascita del Movimento internazionale della Croce Rossa e la costituzione delle società nazionali di Croce Rossa, organizzazioni volontarie di soccorso caratterizzate dal segno distintivo che ne garantiva la neutralità.

Un’altra tappa importante si compì pochi anni dopo in Russia, quando nel 1868 venne sottoscritta la Dichiarazione di San Pietroburgo sulla proibizione dell’uso di munizionamento destinato a infliggere mali superflui e di gas asfissianti.

Vi si proibiva l’impego di proiettili ed esplosivi che avrebbero causato ai combattenti «inutili sofferenze», da considerarsi «superflue per i fini militari della guerra».

Sono ancora i “principi di umanità” ad ispirare la Russia dello Zar Nicola II nel farsi promotrice delle due Conferenze internazionali per la pace tenutesi all’Aja nel 1899 e nel 1907, da cui si originarono le rispettive Convenzioni dell’Aja che ancora limitavano il ricorso indiscriminato alla violenza bellica.

La Corte penale internazionale

Dopo le due guerre mondiali e i conflitti sorti dai processi di decolonizzazione il progetto del diritto internazionale umanitario approda alle Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai Protocolli I e II del 1977.

Le condizioni fondamentali per la condotta della guerra prevedono il “rispetto” e la “protezione” di chi non partecipa alle ostilità: la popolazione civile, i prigionieri di guerra, i feriti, i malati e i naufraghi.

Ne consegue il “principio di distinzione” tra combattenti e popolazioni civili, nonché tra obiettivi militari e civili. Qualunque principio di «necessità militare» va dunque subordinato alla regola della “proporzionalità” rispetto ad un vantaggio militare diretto e concreto, che in ogni caso non può coinvolgere la popolazione civile in misura eccessiva.

Rispetto alla violenza bellica che colpisce oggi centrali elettriche, dighe e altre strutture l’articolo 54 reca un titolo eloquente: Protezione dei beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile. Il principio è la condanna di ogni deliberata azione di guerra, anche a titolo di “rappresaglia”, che abbia “la deliberata intenzione” di privare la popolazione civile dei mezzi di sussistenza

I principi del diritto internazionale umanitario sono poi confluiti nel percorso delle Nazioni Unite e dell’idea di giustizia penale internazionale. Dalle esperienze dei Tribunali di Norimberga e Tokyo, passando per i Tribunali della ex Jugoslavia e del Ruanda, il 17 luglio 1998 si è arrivati all’approvazione dello Statuto della Corte penale internazionale, entrato in vigore nel 2002 . Lo “Statuto di Roma” rappresenta oggi il più avanzato codice che individua le principali fattispecie dei crimini internazionali: i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità, il genocidio, e (dal 2018) il crimine di “aggressione”, ovvero l’attacco ingiustificato alla integrità territoriale di uno Stato.

Sono noti ancora i limiti della Corte penale internazionale, che pur essendo sostenuta da oltre 120 Stati vede la mancata adesione al suo modello di giurisdizione oltre che di Russia, Cina e India, anche di democrazie come gli Stati Uniti. Ma anche per questo percorso valgono le considerazioni già fatte: occorre considerare l’affermazione dei principi di diritto internazionale sempre come un continuo work in progress.

Un nuovo corso

Eccoci allora all’intento posto nella premessa, per interrogarci in che termini possa essere manifestato il senso di una indignazione consapevole, e capire se si può ancora riprendere il percorso originato dal souvenir di Solferino.

La Corte penale internazionale ha già all’esame il caso del trasferimento forzato di minori ucraini per cui lo stesso Putin e un’ alta funzionaria preposta al sistema di protezione dei minori sono stati colpiti da un mandato d’arresto internazionale. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto alla Russia di garantire in particolare la tutela dei civili, la protezione per i beni indispensabili alla loro sopravvivenza, le infrastrutture civili, nonché per la fornitura dei servizi essenziali. Nonostante ciò la guerra prosegue con una ostinata progressione della violenza dell’aggressore.

E allora cosa fare ancora? A chi rivolgere un appello? Certo, è fondamentale in questo momento sostenere la difesa di una popolazione vilmente aggredita, ma è bene pensare ad un progetto più ampio. Molti guardano con speranza alle iniziative di pace del Vaticano, ma a è evidente che un appello per una decisa presa di posizione va indirizzato soprattutto a potenze globali come Cina e India, e agli altri circa 30 stati del cosiddetto “Sud globale” che rivendicano l’emancipazione dalle ultime ingerenze post-coloniali.

Queste rilevanti nazioni dovrebbero maturare ora la consapevolezza che il loro peso strategico non può manifestarsi ancora in una irresponsabile a anodina astensione alle Nazioni Unite rispetto alle Risoluzioni di condanna della guerra.

La loro non-scelta in realtà è una opzione che favorisce la guerra: non fanno che incoraggiare ancora la Federazione Russa a proseguire l’aggressione all’Ucraina, con tutto ciò che ne consegue anche per le crisi energetiche e alimentari.

Forse è il caso di ripensare al modello della Risoluzione 377 del 1950 che, che superando l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza, riuscì ad imporre la cessazione della guerra di Corea. E sarebbe utile ripercorrere anche l’esperienza delle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra, per convocare una nuova Conferenza Internazionale per l’affermazione del Diritto Internazionale Umanitario.

È questo probabilmente il percorso più realistico e concreto per riaffermare i principi dell’Humanitarian International Law e ricondurre l’umanità su un percorso di pace. 

Il futuro delle generazioni non può essere ancora compromesso dalle scelte di leader irresponsabili, su cui è bene che la comunità internazionale sia chiamata nuovamente a confrontarsi, e a decidere sulla base delle regole e dei principi universali che possono valere solo se si riafferma il ruolo del diritto internazionale.

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