Il pavimento del centro di detenzione di Tarik Al-Sika è ricoperto di materassi, uno spiraglio di luce entra nel grande capannone principale dove sono rinchiuse oltre 400 persone, così strette da non riuscire nemmeno a sdraiarsi. L'aria è irrespirabile, impossibile camminare senza calpestare i corpi. Centinaia sono condannati alle malattie e alla fame, rinchiusi da mesi. Un gruppo di subsahariani è arrivato da poche ore, intercettato dalla guardia costiera libica al largo. Sui vestiti strappati e intrisi di salsedine, i resti del viaggio verso l’Europa. Interrotto. A più riprese.

Nel centro di Tarik Al-Sika vige l'arbitrio. «Ci fanno uscire se riusciamo a pagare il riscatto», sussurra Ibrahim, un ragazzo nigeriano imprigionato da oltre 3 mesi. Una donna di origine Etiope chiede di poter tornare a casa. Lo sguardo indifferente, nel vuoto. Continua a ripetere «I am sick, help me, help me». Sono malata, aiutami. Per uscire, le guardie del centro chiedono 700 dollari, ma il prezzo varia a seconda delle nazionalità. Le pratiche di estorsione nei centri di detenzione libici sono note anche ai funzionari della delegazione dell’Unione europea a Tunisi. «I riscatti vengono pagati  a un libico attraverso uno schema circolare: arresto, riscatto, pagamento, rilascio», si legge nel verbale interno di una riunione dello scorso maggio.

La delega ai libici per il controllo delle frontiere europee ha riportato forzatamente a Tripoli oltre 10mila persone dall’inizio dell’anno. Una partita truccata da accordi e protocolli operativi stipulati dall’Italia con la Libia. Formazione, finanziamenti e attrezzature alla Guardia costiera libica per intercettare richiedenti asilo e migranti che tentano di lasciare il paese via mare. E in particolare, alimentare il sistema di estorsione e traffico.

«L’Europa ha preferito trasferire il problema sulle nostre spalle anziché farsene carico», accusa Nabil Abdallah Elsaro, 28 anni, una delle guardie del centro di Tarik Al-Sika di Tripoli. Il centro, utilizzato come “modello” per le visite ufficiali di giornalisti e delle delegazioni europee, è controllato dalla milizia di al-Khoja sotto il comando dal comandante Naser Hazam: i pasti, le distribuzioni di kit-igienici delle organizzazioni umanitarie, un container per le visite mediche finanziato dalla cooperazione italiana. Tutto come da copione. E a qualche metro di distanza, la base della milizia di Mohamed al-Khoja, vice capo del DCIM, l'agenzia governativa responsabile dei centri di detenzione.

Al-Khoja è la dimostrazione delle logiche libiche nella distribuzione del potere locale. Rappresenta come le politiche inefficienti della Libia, siano troppo abituate a legittimare attraverso l'etichetta del controllo della migrazione. Negli ultimi anni, il vice del DCIM, ha guadagnato milioni di euro in contratti per cibo e aiuti ai migranti, ma anche legittimità ed inviti a Roma per partecipare a riunioni ufficiali con le Nazioni Unite e il governo italiano sulla migrazione.

In Libia al momento ci sono una decina di centri di detenzione ufficiali dove – secondo alcune stime – sarebbero rinchiuse arbitrariamente circa cinquemila persone, tra cui centinaia di bambini.

L’incapacità – e continua riluttanza – di migliorare le condizioni disastrose nei centri di detenzione ha da sempre creato un problema di immagine negli sforzi europei per contenere la migrazione. Nonostante le visite ufficiali e i tentativi di riabilitare la reputazione dell’agenzia governativa responsabile dei centri di detenzione – cercando di renderla un partner più attraente per i donatori internazionali, in particolare l’Ue – i gruppi di milizie che controllano i centri e le aree circostanti continuano ad opporre resistenza.

I cartelli delle milizie di Tripoli lottano per mantenere il controllo delle risorse statali, i gruppi rivoluzionari continuano a chiedere risarcimenti e sanzioni per i crimini di guerra commessi dal Haftar. Il Consiglio presidenziale libico – che dovrebbe portare il paese ad elezioni il prossimo 24 dicembre – ha ancora sede all’Hotel Corinthia a Tripoli. Le agenzie delle Nazioni unite presenti nel paese sono incapaci di imporre il loro mandato. E i migranti restano l’arma di ricatto tra lotte di potere locale, ritorsioni internazionali e nuovi equilibri di potere. In Libia – per ora – il conflitto si è placato, ma i gruppi armati continuano a plasmare la politica. Lo scorso 28 febbraio, un tentativo di fuga dal centro di Abu Salim è costato la vita a un minore sudanese, morto con un colpo alla testa. Il comandante Abdel Ghani al Kikli, a capo dell’Autorità di sostegno alla stabilità di Tripoli e anche uno dei combattenti tripolini più noti, è alla testa della milizia di Abu Salim che controlla il centro di detenzione. Il Dcim ha promesso che avrebbe aperto un’indagine per punire i responsabili. Poche settimane più tardi, l’8 aprile, un’altra sparatoria; questa volta all’interno del centro di detenzione al Mabani di Tripoli inaugurato a fine anno. Il bilancio: un morto e due feriti, di cui un minore.

Il Centro di al Mabani, nella zona di Ghut Shaal, a ovest di Tripoli è ufficialmente sotto il controllo del Dcim, ma a pochi metri c’è la sede l’Agenzia di pubblica sicurezza, gestita da una milizia affiliata al governo.

L’area è quella della ex fabbrica di tabacco, conosciuta a Tripoli come un luogo losco, dove i libici stessi vengono fatti sparire. A gestire il centro – nella pratica – è il colonnello Noureddine al Gritli, descritto come una persona all’avanguardia da chi lo conosce personalmente, un ufficiale legittimo, ma necessario per allontanare l’attenzione indesiderata.

Il piano per la chiusura

Il capo del Dcim, il colonnello Mabrouk Abd al Hafiz, ha provato a ristrutturare la gerarchia della sua agenzia, almeno sulla carta, e promosso quella che lui chiama una rivoluzione all’interno del Dcim. «Il problema non sono solo i miliziani o gli individui che approfittano della situazione, ma la lobby che è ancorata alle istituzioni statali. Questo include persone nella mia stessa agenzia», ha raccontato durante un’intervista a Tripoli lo scorso dicembre.

Negli ultimi mesi, il Dcim ha sviluppato un piano per la chiusura di alcuni noti centri di detenzione tra cui al Khoms, Zintan e Zawya. L’ultimo è da sempre conosciuto come il centro di Osama Milad Rahuma, il cugino del guardacoste libico più noto in Italia, Abd al Rahman Milad detto al Bija. Negli anni, individui delle due famiglie più influenti a Zawiya, il clan dei Buzriba e dei Koshlaf hanno lavorato a braccetto nell’amministrazione del centro di detenzione al Nasr di Zawya e nella gestione delle partenze.

Dalla costa al deserto, oggi nessuna autorità libica ha il pieno controllo dei suoi uomini. Il colonnello Mabrouk Abd al-Hafiz lo sa bene; alle spalle ha una carriera nella polizia libica. «Stiamo aprendo centri in aree fuori dal controllo delle milizie o fuori città dove sono attivi trafficanti di esseri umani», ha raccontato dal suo ufficio nella periferia di Tripoli. Ma come sempre la realtà è più complessa.

Tra le scelte di al Mabrouk, la creazione di un’unità di pattugliamento nel deserto per fermare i migranti che transitano sulle montagne occidentali della Libia, e l’apertura di centri ancora più lontani dalla costa.

Il piano prevede l’utilizzo di centri isolati nel deserto – a Gharyan e Batn al Jabal – e la ristrutturazione di un vecchio centro a Tuwaysha.

I pattugliamenti nel deserto fino alle città di Derji e Ghadames sono iniziati ufficialmente il 25 ottobre, ma i mezzi sono stati consegnati dall’Italia il 9 luglio scorso, conferma una fonte del ministero dell’Interno libico. Trenta Toyota Land Cruiser, modello GRJ76 e GRJ79 forniti dall’impresa italiana Tekne e costati all’Europa quasi 2 milioni di euro tramite il Fondo Fiduciario per l’Africa, nell’ambito del quale l’Italia accresce il proprio ruolo. La logica di controllo prevede sostegno per intercettare i richiedenti asilo: sorvegliare i confini marittimi e terrestri, fornire motovedette, creare il centro di coordinamento marittimo di Tripoli, e progettare la famosa polizia del deserto.

Un rapporto commissionato dalle Nazioni unite all’istituto olandese di relazioni internazionali Clingendael ha evidenziato come la maggior parte dei membri dell’unità di pattugliamento nel deserto provenga da gruppi armati di Zintan.

Pattuglie e trafficanti

Il documento segnala che membri delle pattuglie sono in coordinamento con le reti locali di trafficanti per garantire un flusso costante di arresti e detenzioni. Le Nazioni unite hanno inoltre espresso preoccupazioni che questi pattugliamenti possano aumentare le deportazioni forzate nel deserto.

«I migranti intercettati nel deserto vengono portati in un centro di detenzione a Dirj», si legge in un documento interno redatto dalla delegazione europea a Tunisi. Secondo quanto emerge dal documento ottenuto da Domani «le condizioni a Dirj sono squallide, non ci sono coperte, materassi, acqua potabile, cibo. I migranti sono costretti a pagare il riscatto per essere liberati».

Le condizioni sono note e non hanno l’aria di scioccare le delegazioni europee in Tunisia. Nel centro di Gharyan, riaperto da qualche mese con il piano di riforma del Dcim, i migranti sono raddoppiati nel giro di poche settimane. «Due sudanesi sono rimasti feriti durante un tentativo di fuga lo scorso primo aprile. Le guardie ora si concentrano sui nuovi detenuti arrivati, in particolare su quelli più redditizi come gli eritrei, gli etiopi e i bengalesi», si legge nel documento interno.

La lettera

«Salve, vi scriviamo in riferimento al contesto legale su cui ci siamo accordati precedentemente, che riguarda la facilitazione delle procedure di messa a parte di tutte le parti interessate a raggiungere l’interesse comune e a eliminare gli ostacoli delle procedure amministrative... La questione nota a tutti e la facilitazione di molte attività senza aggirare o trascurare regolamenti, controlli e leggi.

Invece, dalle istruzioni del ministro dell’Interno del governo di unità nazionale emerge che hanno deciso di bloccare l’interazione con le organizzazioni internazionali... Vorremmo informarvi della difficoltà che incontriamo nel completamento di ogni procedura senza seguire la gerarchia, a partire dal ministero degli Affari esteri, poi il ministero dell’Interno attraverso il dipartimento delle Relazioni internazionali e così via, una situazione che ci porta a dover cessare tutte le attività di cui ci avete scritto, fin quando saremo ricevuti nella trafila di cui sopra.

Tenetelo a mente

Generale al Mabrouk Abdul Hafeez Milad».

Le restrizioni

E nelle ultime settimane sono aumentate le restrizioni per le agenzie delle Nazioni unite che lavorano nel paese. Anche sui corridoi umanitari dalla Libia verso altri paesi, altro elemento che il governo e l’Europa promette di potenziare, ci sono tensioni. Una lettera di aprile inviata dal Dcim alle organizzazioni internazionali in Libia impone nuove procedure per le visite ai centri di detenzione.

«Dall’inizio dell’anno sono stati evacuati solo 201 richiedenti asilo e rifugiati. Sono state bloccate le evacuazioni di rifugiati dalla libia verso altri paesi. Ora il rischio è che più persone si affidino ai trafficanti», ha detto un funzionario delle Nazioni unite.

Ci sarebbero 3 voli per il Rwanda e il Niger, oltre a un volo verso l’Italia: 600 persone pronte per essere evacuate e 300 con i documenti di viaggio in attesa per andare in altri paesi.

Non solo arresti arbitrari, abusi fisici, detenzioni prolungate e arbitrarie in condizioni precarie. Le deportazioni forzate nel deserto continuano.

Ci sono 191 eritrei, etiopi e somali trattenuti nel centro di detenzione di Kufra. Rischiano l’espulsione nel deserto. L’anno scorso, oltre 5mila persone sono state espulse dal deserto. Abbandonati in una remota città alla frontiera con il Ciad o riportati in Sudan. Il direttore del centro, Mohamed Ali al Fadil, ha ribadito, «deportiamo più persone e più velocemente che mai».

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