«Ho ascoltato le parole di Biden e del primo ministro israeliano Yair Lapid riguardo la soluzione a due stati, sono positive e gliene siamo grati», ha detto il leader palestinese Abu Mazen nel suo discorso di venerdì davanti all’Assemblea generale delle Nazione unite a New York, dopo oltre mezz’ora di rimostranze sulla sofferenza e sull’abbandono del popolo palestinese.

Il suo intervento era atteso in seguito alle dichiarazioni di Lapid che giovedì dallo stesso scranno aveva annunciato «un accordo con i palestinesi, basato sull’idea di due stati per due popoli, è la cosa giusta per la sicurezza di Israele, per la nostra economia e per il futuro dei nostri bambini».

Ma poi Abu Mazen ha proseguito sottolineando come la retorica di Lapid non fosse accompagnata da proposte o iniziative concrete. «Il vero test per la serietà e credibilità [di queste dichiarazioni] – di parole e risoluzioni ne abbiamo avuto abbastanza – è quello di un ritorno israeliano al tavolo del negoziato e dell’interruzione, perlomeno temporanea, di tutte le iniziative unilaterali, come l’espansione degli insediamenti e le uccisioni [indiscriminate]».

Durante la prima parte dell’intervento Abu Mazen aveva lamentato come non ci sia più «nessuna terra dove poter stabilire uno stato, dove potrà vivere in pace la nostra gente?» e stimando che un quarto della popolazione della Cisgiordania sia ormai di coloni israeliani.

La mancata proposta

In effetti nel suo discorso Lapid ha messo sul piatto poco o nulla che corroborasse il suo proclama di pace. Non ha ipotizzato un ritiro israeliano seppur parziale dalla Cisgiordania occupata dal 1967, e sempre più dominata dagli insediamenti ebraici. Né tantomeno ha citato possibili concessioni su Gerusalemme, che i palestinesi come gli israeliani rivendicano come capitale. Non ha ventilato l’ipotesi di cedere all’Autorità Palestinese il controllo di almeno un valico di frontiera – per esempio quello con la Giordania. Né riflettuto su come ristabilire dei collegamenti, se non una parvenza di contiguità territoriale, fra la striscia di Gaza e la Cisgiordania.

Verrebbe da chiedere a Lapid, sulla scia delle sue dichiarazioni: lo stato palestinese avrebbe diritto ad importare ed esportare prodotti senza che siano soggetti ai controlli e alle condizioni della dogana israeliana? Avrebbe un aeroporto, come quello inaugurato a Gaza nel 1998 e poi distrutto pochi anni più tardi con l’avvento della seconda intifada? Oppure un porto marittimo presso la striscia che non sia sottoposto all’assedio armato dell’esercito dello stato ebraico? Infine, per la pace e il conseguimento della soluzione a due stati, Lapid è pronto ad interrompere le incursioni israeliane almeno nella area A, che secondo gli accordi di Oslo dovrebbe essere sotto il controllo esclusivo dei palestinesi? Di recente le truppe di “Tzahal” ci sono entrate ancora una volta non per un’emergenza securitaria, ma per chiudere gli uffici di delle organizzazioni non governative.

Finché il leader israeliano non fornisce qualche dettaglio sulle prossime prospettive di pace è difficile vinca lo scetticismo di Abu Mazen, secondo cui «Israele non crede nella pace ma nell’imposizione dello status-quo attraverso metodi di aggressione».

Per quanto convincenti fossero le parole del leader israeliano – Lapid ha ricordato il padre bambino nel ghetto, un nonno ucciso nei campi di concentramento e una figlia autistica sotto i razzi di Gaza, spiegando l’importanza delle garanzie di sicurezza per Israele – è difficile immaginare le sue dichiarazioni possano lasciare il segno. Tanto più ora che traghetta un governo già capitolato, in vista delle quinte elezioni in meno di quattro anni.

Lo stesso ex primo ministro e leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu, nel famoso discorso di Bar Ilan nel 2009, aveva appoggiato la soluzione a due stati, considerata l’unica via di fuga dalla possibile richiesta palestinese di estendere pari diritti a tutti gli abitanti delle zone sotto controllo israeliano (il che potrebbe ridurre la popolazione ebraica ad una minoranza).

Ma negli anni “Bibi” ha decostruito il concetto di due stati elaborando quello di “state minus”, cioè «un po’ meno di uno stato». In altre parole l’entità palestinese sarebbe uno “stato” senza i suoi attributi classici, cioè con una sovranità parziale, un controllo sulle frontiere mediato dallo stato ebraico, un’autonomia limitata, una contiguità territoriale troncata. Forse è questo tipo di stato che aveva in mente anche Lapid.

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