Gettare acqua nel mare può sembrare un gesto ovvio, naturale e pacifico. Ma se quell’acqua viene dalla centrale di Fukushima, allora il gesto – visti i rischi da soppesare – non è ovvio né naturale. Date le tensioni che sta innescando, non si può neppure definirlo pacifico.

Nel 2011 l’incidente nucleare ha cambiato le sorti non solo di tanti giapponesi, ma anche di noi europei; basti pensare che è dopo Fukushima, che la Germania ha deciso di dismettere i suoi reattori. Ci è voluto un anno – era il 2012 – perché la Tokyo Electric Power Company (la “Tepco”) riconoscesse pubblicamente le sue responsabilità nell’incidente, e perché divenisse chiaro a tutti che «avrebbe potuto essere evitato».

Questi due elementi – il colpo che l’incidente ha rappresentato, e la irresponsabile mancanza di trasparenza – aiutano in parte a capire come mai da giorni tanti cittadini giapponesi, oltre che le associazioni ambientaliste come Greenpeace, stiano protestando contro l’operazione di sversamento in mare che ha preso il via questo giovedì.

Per comprendere la reazione della Cina – che ha imposto il divieto di importare frutti di mare dal Giappone – bisogna invece guardare anche alle acque taiwanesi, oltre che a quelle della centrale...

L’operazione acqua

La vicenda dello sversamento delle acque sta riaprendo le ferite della primavera del 2011. L’11 marzo di dodici anni fa, il terremoto più potente mai registrato in Giappone fino a quel momento – magnitudo 9 – ha sconquassato i fondali dell’oceano Pacifico generando uno tsunami. E quell’onda anomala alta quattordici metri si è rivolta anche verso la centrale nucleare di Fukushima; l’elettricità in tilt ha fatto sì che saltasse anche il processo di raffreddamento del nocciolo dei reattori nucleari. L’incidente nucleare che ne è generato – di livello 7 come quello di Chernobyl – ha comportato un’evacuazione massiccia della popolazione; circa 160mila persone, delle quali migliaia tuttora sfollate.

Un’estate fa, oltre a chiedere miliardi di danni ai vertici di Tepco, i giudici giapponesi hanno anche sancito le responsabilità dell’azienda: pur avendo l’impresa stessa realizzato già anni prima dell’incidente i rischi legati a possibili tsunami, non è stata fatta un’adeguata prevenzione, o per dirla come la corte, «è mancato il senso di responsabilità». Ed è sempre Tepco che sta gestendo l’odierno processo di smaltimento delle acque in mare.

Tutto comincia con le ingenti risorse idriche utilizzate in questi anni per il raffreddamento dei reattori incidentati; quest’acqua, contaminata, è stata accumulata in tanti enormi serbatoi. Parliamo di più di un milione di tonnellate d’acqua accumulate nei pressi dell’impianto. L’azienda, per poter iniziare a smaltire almeno in parte queste acque, ha avviato un processo di filtraggio, seguendo un iter che viene chiamato “Advanced Liquid Processing System” e che è volto a purificare parzialmente l’acqua: non è possibile eliminare del tutto l’isotopo trizio, ma solo diluirne la concentrazione.

Da almeno un paio d’anni Tepco si prepara – coordinandosi col governo giapponese – al momento dello sversamento, che è iniziato questo giovedì ma che durerà a lungo; la prima tranche prevede il rilascio nell’oceano di poco meno di 8mila tonnellate d’acqua trattata, nel corso di 17 giorni.

Gli esperti di diritti umani dell’Onu hanno riportato già due anni fa le loro preoccupazioni per l’impatto dello sversamento sulle comunità locali, già provate, oltre che per salute e ambiente. Ad ogni modo, il piano giapponese ha il via libera dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea).

Proteste. E liti cinesi

Greenpeace, a cominciare dal suo nucleo giapponese, ha espresso contrarietà all’operazione, ritenendo che non è una strada obbligata, né risolutiva, per la dismissione della centrale. «Diversi scienziati hanno avvertito che i rischi radiologici derivanti dal rilascio di acqua contaminata non sono stati completamente valutati e che gli impatti biologici degli elementi radioattivi che saranno scaricati in mare (trizio, carbonio-14, stronzio-90 e iodio-129) sono stati ignorati. Si oppone allo sversamento dell’acqua contaminata anche l’U.S. National Association of Marine Laboratories (NAML), che riunisce un centinaio di istituzioni scientifiche americane che si occupano di ambiente marino», nota Greenpeace. L’associazione americana in questione parla di «preoccupazioni per la salute di ecosistemi e persone, di rango transfrontaliero e generazionale».

L’operazione non è vissuta serenamente dall’opinione pubblica giapponese, come mostrano le proteste dei cittadini, oltre che le rimostranze delle comunità di pescatori, che temono la pubblicità negativa e lamentano lo scarso coinvolgimento da parte del governo nonostante le promesse fatte anni fa. Emblematici, per capire il clima, anche gli editoriali come quello vergato mercoledì da uno dei più rilevanti quotidiani del paese, l’Asahi Shimbun: «Mancano ancora spiegazioni e rassicurazioni. Tepco è stata ripetutamente coinvolta in scandali. L’agenzia Onu per l’energia atomica riporta che l’operazione soddisfa gli standard finché eseguita secondo i piani; ma per garantire ciò, un rigoroso monitoraggio e la divulgazione delle informazioni sono indispensabili».

Oltre alle perplessità domestiche, il governo giapponese deve affrontare quelle che vengono da altri paesi asiatici. La Cina questo giovedì ha lanciato il suo divieto totale di importazione di frutti di mare e altri prodotti marini dal Giappone; un duro colpo che il premier giapponese chiede di ritirare, appellandosi a discussioni «su basi scientifiche». Ma alla Cina salta più all’occhio il suo allineamento agli Usa, anche per quel che riguarda la vicenda taiwanese.

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