Dopo almeno un decennio di apocalittiche constatazioni sulla regressione democratica e nere profezie sul destino della società liberale, le cose sembrano cambiate.

L’aggressione dell’Ucraina ha riconsolidato il campo dei difensori della democrazia, ricordando che nemmeno nel cuore del continente europeo nozioni come integrità territoriale e stato diritto possono essere considerate acquisizioni permanenti. Vladimir Putin è il tiranno che mostra il valore di ciò che vuole distruggere a chi pensava di possederlo senza sforzo.

Al summit delle democrazie dello scorso marzo il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha detto che i sistemi democratici finalmente hanno «invertito la rotta», istituzioni come la Nato hanno acquisito nuova centralità e si espandono, fioriscono sigle e alleanze per contrastare le autocrazie.

Organizzazioni come la Freedom House certificano che la salute dei sistemi democratici è in netta ripresa.

Questa è linea narrativa che hanno abbracciato negli ultimi mesi molti osservatori e leader politici occidentali. Ma non è la linea che abbraccia Shadi Hamid, senior fellow alla Brookings Institution e professore di studi islamici al Fuller Seminary.

Intellettuale pubblico di persuasioni democratiche e animatore del dibattito sulla rivista The Atlantic e sul progetto collettivo Wisdom of Crowds, Hamid ha scritto di recente il libro The Problem of Democracy, una rigorosa analisi delle contraddizioni interne della democrazia liberale.

Ne discuterà giovedì 24 agosto al Meeting di Rimini con lo scrittore e dissidente russo Mikhail Shishkin in un incontro dal titolo “Fra democrazia e autocrazia: il destino della libertà”.

Professore, cosa ne pensa di questa ritrovata fiducia nella democrazia?

Penso che siamo tornati a un punto in cui non eravamo mai davvero stati. La preoccupazione collettiva per cui si diceva “oddio sta crollando tutto” non era una rappresentazione fedele di quello che stava succedendo. Il panico si è diffuso negli Stati Uniti e in Europa in concomitanza con l’elezione di Trump e la crescita di alcuni partiti di estrema destra, fenomeni che le democrazie avanzate sono equipaggiati per affrontare. La democrazia americana ha resistito a Trump. In Italia Meloni è certamente criticabile, ma non mette a rischio la democrazia. C’è in questo un paradosso.

Quale?

Nei sistemi democratici si gode anche della libertà di andare nel panico, di esagerare le minacce, di reagire in modo sproporzionato. Nei regimi autoritari non c’è questa libertà. Quindi in un certo senso le democrazie vivono in uno stato di panico permanente: c’è sempre il timore che una minaccia faccia crollare tutto e la totale libertà di manifestare in tutte le forme possibili questa paura, anche quando è irragionevole.

Che cosa si sta più realisticamente mostrando in questa fase?

Che i regimi autoritari e le autocrazie sono deboli. L’esempio più ovvio: il modello economico e politico della Cina sta mostrando da tempo, ma ora in modo chiarissimo, i segni di una profonda crisi, tanto che molti analisti ora dicono che non raggiungerà mai il Pil degli Stati Uniti.

L’invasione dell’Ucraina come ha cambiato la percezione delle autocrazie?

È stato un momento che ha mostrato in modo decisivo alcune cose, fra cui la debolezza, la violenza e l’inadeguatezza di un sistema verticistico dominato da un solo leader. Ma ci ha mostrato anche che l’idea di poter riformare la Russia e altre autocrazie con il commercio e il mercato era totalmente falsa.

Significa che i regimi non si possono cambiare o riformare?

La democrazie non sono in grado di domare le autocrazie, ci sono semplicemente troppe differenze per poter pensare di procedere per assimilazione. Credo che l’occidente debba essere estremamente attento a questa illusione che ha creato tante crisi dalla Guerra fredda in poi.

Nel suo libro dice che è stato un grave errore sovrapporre e confondere la democrazia e il liberalismo. Spieghi.

La democrazia, intesa nella sua essenza elettorale, per esistere non deve necessariamente essere pienamente liberale.

Certo, alcuni diritti e libertà che il liberalismo ha diffuso sono essenziali perché le elezioni avvengano in modo legittimo e credibile, penso ad esempio al diritto di manifestare o alla libertà di espressione. Ma non è detto che una democrazia debba ad esempio aderire al modello economico neoliberale. Convinzioni come quella secondo cui il mercato avrebbe portato con sé anche i diritti o che due paesi che hanno scambi commerciali non si fanno la guerra hanno posto le premesse per errori disastrosi. Ma quelle convinzioni erano l’espressione della cultura liberale.

La sua idea è separare democrazia e liberalismo.

Sono convinto che il liberalismo sia il migliore orientamento ideologico fra quelli che abbiamo a disposizione. Ma è un orientamento ideologico, mentre molti teorici del liberalismo lo presentano come lo stato naturale delle cose, non come un’ideologia.

È il mito della falsa neutralità del liberalismo. La verità è che non c’è nulla di neutrale: anche un sistema che si presenta come equidistante rispetto alle concezioni della vita buona delle persone, un semplice arbitro che definisce le regole della convivenza, in realtà esprime una concezione del mondo.

Cos’è il “minimalismo democratico” di cui parla nel suo libro?

È un modo di pensare alla democrazia che mette al centro una nozione elementare: l’alternarsi del potere attraverso le elezioni.

Se uno pensa alla democrazia in termini strettamente procedurali evita il rischio di fare un investimento eccessivo, sproporzionato sul sistema democratico, come se questo potesse fornire risposte a qualunque problema umano e sociale. La democrazia minimalista è un mezzo che prescinde dagli esiti ideologici del voto.

 

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