Il triangolo di al Fashaga è al centro degli scontri armati tra Etiopia e Sudan di queste ultime settimane. La crisi interna etiopica ha riacceso un vecchio conflitto per il quale era stato trovato un accomodamento pragmatico tra il precedente regime sudanese del generale Omar al Bechir, e il governo a maggioranza tigrina di Melles Zenawi. Il cambiamento degli assetti politici all’interno dei due stati (l’avvento di Abiy Ahmed in Etiopia e l’avvio della transizione sudanese) ha rimescolato le carte. Quei 250 chilometri quadrati da sempre rappresentano un grattacapo: secondo le mappe coloniali si tratta di territorio sudanese ma da lungo tempo sono abitati da contadini etiopici, in specie amhara. Le conseguenze del recente scontro tra il governo federale di Addis e il Tplf (Tigray popular liberation front) tigrino, si fanno sentire anche oltre frontiera: i movimenti di popolazione provocati dai combattimenti hanno finito per riattizzare una contesa congelata.

Approfittando della sconfitta tigrina, gli amhara della regione hanno riaperto la questione della demarcazione interna tra la loro regione e il Tigray, rivendicando un’ampia area persa in precedenza e occupandola con la polizia regionale. Impegnata nella repressione del Tplf, Addis Abeba non si è opposta perché era un modo per chiudere l’accesso del Tigray alla frontiera internazionale. Ma ciò non è avvenuto senza combattere: vi sono stati massacri dalle due parti con conseguente flusso in direzione della frontiera (si parla di circa 50mila profughi) che ha favorito la ripresa del conflitto con il Sudan. Le truppe di Khartoum hanno ricevuto l’ordine di sloggiare con la forza gli etiopici stanziati nel triangolo, creando ulteriori sconvolgimenti. Nemmeno la visita poco prima di Natale di una delegazione etiopica è per ora riuscita a calmare le acque.

Le mire del Sudan

Perché il Sudan ha voluto mostrare i muscoli in una situazione che riguardava una crisi interna etiopica? La spiegazione risiede nella disputa che si è riaccesa sulla gestione delle acque del Nilo, a seguito dell’entrata in funzione della Gerd, la diga costruita dalla Salini sul Nilo azzurro. Anche in questo caso si tratta di una vecchia diatriba iniziata fin da quando l’Etiopia ha realizzato un sistema di dighe di cui la Gerd è l’impresa finale. L’obiettivo è fare di Addis il maggior provider di energia pulita della regione ma anche di controllare le acque del grande fiume a scopi agricoli.

Ovviamente l’esecuzione di tali grandi opere suscita una controversia internazionale sui possibili effetti della manipolazione di un corso di tale portata. Fino a pochi anni fa il Sudan era rimasto su posizioni filo etiopiche nella contrapposizione con l’Egitto. Tradizionalmente quest’ultimo è avvantaggiato nel controllo delle acque del Nilo, quasi ne fosse l’unico fruitore. Nell’ultimo periodo le proteste del Cairo per la Gerd hanno ottenuto l’attenzione anche degli Stati Uniti di Donald Trump. Invece di mediare, il presidente Usa si è schierato con l’Egitto, perfino giustificandone una possibile reazione armata. Allo stesso tempo il Sudan in transizione cedeva alle pressioni di Washington che, oltre alla normalizzazione con Israele, chiedeva tale cambio di posizione per ottenere la fine dell’embargo e delle sanzioni. Non tutti a Khartoum sono convinti che tale cambio di posizione sia positivo, anche per motivi di controllo del fiume stesso. Ad esempio secondo alcuni esperti, le recentissime inondazioni che hanno costretto circa 900mila sudanesi a spostarsi, si sarebbero potute evitare se la Gerd fosse già stata in funzione.

Tra conflitto frontaliero e polemiche sul Nilo, le relazioni etiopico-sudanesi si stanno inasprendo, rievocando un tempo in cui ciascuno fomentava la guerra in casa dell’altro. Negli anni Ottanta il regime comunista etiopico finanziava il vari gruppi armati anti Khartoum; dal canto suo quest’ultima sosteneva le milizie eritree, specie quelle di tendenza islamica. Oggi, mentre il Sudan non ha ancora completato gli accordi con i ribelli del Darfur e delle Blue Mountains, e l’Etiopia è in pieno conflitto interno con i tigrini, il rischio è il ritorno allo schema della reciproca destabilizzazione.

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