Dunque Draghi ha dato del dittatore a Recep Tayyip Erdogan. Frase irrituale, poco protocollare. Sconcerto, imbarazzo, compiacimento. In Italia plauso unanime (per la destra si tratta di «arginare l’islamismo»). Reazione unanime dei turchi, opposizione compresa: Turkey first. Un po’ di rispetto, dice il portavoce della Commissione europea – presso la quale pende da decenni la domanda di adesione della Repubblica turca –, la Turchia è un paese con un parlamento e un presidente eletto. Dunque Erdogan non è un dittatore perché è eletto dal popolo. Guardate in casa vostra, dicono i turchi, pensate a Mussolini. In effetti Mussolini era un deputato eletto, ma come capo del governo non lo era (come non lo sono Monti, Renzi, Conte, Draghi, protesta chi della Costituzione italiana ha un’idea vaga); epperò il suo governo ebbe la maggioranza di un parlamento eletto dal popolo. Che poi, passo dopo passo, egli affossò, lo sappiamo. Erdogan è sulla buona strada. Speriamo si contenga.

Il dictator

Proviamo allora a far ordine in questa faccenda del dittatore. Intanto, l’attributo di dittatore ha una connotazione negativa, molto negativa. In età contemporanea, ho presente solo un uso positivo del termine. Il 14 maggio 1860 a Salemi Garibaldi si proclamò dittatore «nel nome di Vittorio Emanuele re d’Italia». Era una reminiscenza classica. Tra sesto e terzo secolo a.C, dictator era a Roma un magistrato straordinario investito di poteri eccezionali in caso di necessità (combattere una guerra, soffocare una ribellione). Essenziale in questo caso era la temporaneità della carica. Entro questi limiti, la dittatura era una valvola di sicurezza necessaria a ogni potere legittimo: lo riconobbe Rousseau (sospesa la legge, «in questi casi rari ed evidenti si provvede alla sicurezza pubblica con un atto particolare che ne affidi l’incarico al più degno») e prima di lui Machiavelli («quelle repubbliche, le quali negli urgenti pericoli non hanno rifugio o al dittatore o a simili autoritadi, sempre ne’ gravi accidenti rovineranno»). Un secolo fa, nel 1921, Carl Schmitt, definendo la dittatura come «un tipo di ordinamento che prescinde in linea di principio da un’intesa e da una consultazione con chi la deve subire e tantomeno ne attende l’approvazione», riprendeva però una distinzione risalente ai classici, distinguendo tra “dittatura commissaria” – dove il dittatore è investito del potere dalla Costituzione – e “dittatura sovrana”, dove il dittatore si autoinveste e assume un potere costituente. Il caso di Garibaldi è dunque un po’ anomalo, perché la sua dittatura non gli fu commissionata, né dal governo legittimo né dal re, nelle mani del quale tuttavia Garibaldi consegnò le sue conquiste: non solidificandole in regime, non assunse dunque un potere costituente.

Avanti popolo

Sono altre le accezioni del termine che hanno dominato il Novecento. L’idea della magistratura eccezionale si trasferì, attraverso i congiurati giacobini, nella fraseologia marxista, e fu la “dittatura del proletariato”. Ma giacché per i marxisti lo stato è comunque una dittatura, quella del proletariato indicava la vittoria della rivoluzione, e andava intesa come dittatura collettiva, della classe, ovvero di tutto il popolo, o almeno della sua parte lavoratrice. Mancavano dunque in quel caso gli attributi essenziali della dittatura antica, la legittimità della nomina, l’unicità del soggetto investito del comando, la chiara temporaneità della carica. Rimaneva solo l’estensione dei pieni poteri, che senza più limiti traduceva la dittatura in “totalitarismo”, termine che mette l’accento su un aspetto fondamentale della sovranità, il controllo illimitato degli apparati repressivi dello stato.

I moderni dittatori, che si pretendano più o meno rivoluzionari, sono perciò “dittatori sovrani”. E se nei socialismi tale “dittatura del proletariato” si è incarnata nel dominio del partito e di un uomo, altrove i despoti non vollero chiamarsi dittatore, ma di volta in volta duce, jefe, Führer, caudillo, conducãtor e così via.

Difendendolo dalle critiche di Draghi, si sottolinea che Erdogan è eletto dal popolo. Ma nell’ultimo secolo, e ancor più nell’ultimo sessantennio, tutti i dittatori, anche i più efferati, inclinano a cercare la legittimazione nel suffragio popolare; lo fanno per lo più in forma plebiscitaria-referendaria, e magari senza pieno rispetto delle procedure. Dai tempi di Napoleone il grande, questo tipo di suffragio popolare si suole chiamare “cesaristico”. E fonda non necessariamente una dittatura, ma di volta in volta un impero, una Repubblica, finanche una democrazia, al vertice del quale c’è un leader, un leader spesso “populista”, che nel discorso pubblico può anche essere definito “dittatore” senza che per questo il suo regime sia una dittatura (infatti Draghi non ha detto che la Turchia è una dittatura, ha detto che Erdogan è un dittatore).

Tutto il resto è nulla

Ora, non imputeremo a Draghi di non aver tenuto un seminario di storia delle dottrine politiche, no. Ma ai suoi lettori e commentatori qualche passo avanti si può chiedere. Accertato che Erdogan è eletto dal popolo, che, sia pure con qualche scricchiolìo, in Turchia c’è un parlamento eletto, con tanto di partiti di opposizione (un po’ malconci), lo scandalo, o il compiacimento, deriva forse dal fatto che Draghi ha usato una locuzione semplice e comprensibile – filologicamente inesatta, come dire “il re è nudo”, che è una metafora – per affermare che il potere di Erdogan non è democratico, o meglio è non democratico. Questo è il punto. Scomparsa una dottrina costituzionale della dittatura, ignorato l’istituto dalle carte costituzionali, sopravvivono alla mente solo due polarità: lo osservava già quarant’anni fa Norberto Bobbio («oggi è invalso l’uso di chiamare “dittature” tutti i governi che non sono democrazie»). Pare che tertium non datur: dove c’è elettività c’è democrazia, e dove non c’è è dittatura. Tutto il resto, stato di diritto, indipendenza della magistratura, libertà di espressione etc., diventa secondario.

Le conseguenze sono rilevanti, non solo nelle definizioni, ma nella politica attiva e nelle relazioni internazionali: ci è facile classificare – e condannare – certe dittature militari, come decenni fa quella di Pinochet o oggi in Myanmar, ma rimaniamo disorientati di fronte a regimi come quello di al Sisi in Egitto, elettivo e membro a tutti gli effetti di un sistema internazionale democratico, quando contravviene a ogni elementare principio dello stato di diritto, come nei casi di Giulio Regeni o di Patrick Zaki. Oppure schiacciamo su modelli dittatoriali le teocrazie islamiche come quella iraniana, o regimi ibridi come quello cinese, che fondono meritocrazia, sperimentazione, democrazia e rigido disciplinamento. Ancora, non sappiamo bene classificare le tendenze regressive che nel nostro stesso mondo colpiscono le democrazie costituzionali traducendole in democrazie plebiscitarie, con tratti palesemente incostituzionali. Accade così che paesi membri dell’Ue, con governi regolarmente eletti, programmaticamente minino i fondamenti dello stato di diritto, come oggi in Polonia o in Ungheria, accogliendo il plauso dei partiti di opposizione liberamente eletti nella nostra democrazia. Nella letteratura specialistica si parla di “democrazie illiberali”, concetto ancora assai vago e allusivo e privo di esiti politici. D’altra parte le democrazie non cessano di aver bisogno di poteri speciali – la dittatura commissaria – di fronte a emergenze come l’11 settembre o la pandemia da Covid-19. Ma mancando ogni cultura costituzionale dell’emergenza è facile evocare negli illetterati i più minacciosi e onirici fantasmi. Lo mostrano oggi i complottisti che di fronte alle misure d’emergenza anti Covid–19 fantasticano di congiure ebraico-farmaceutico-informatiche.

 

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