Basta dire la parola dittatore per fronteggiare e per opporsi davvero a un «dittatore»? 

«Ecco, arriva il dittatore. Dittatore!». Ricordate quella volta? Era un venerdì di maggio del 2015 e i leader europei erano volati a Riga, la capitale della Lettonia, per un vertice del partenariato orientale. Sul mar Baltico sfilavano uno a uno i capi di governo europei, i presidenti dell’Unione europea e quindi il presidente del Consiglio europeo dell’epoca, Donald Tusk, e quello della Commissione europea Jean-Claude Juncker. I Michel e von der Leyen del tempo, insomma. C’erano poi anche i sei partner orientali, dall’Armenia all’Ucraina. 

Sberla in faccia

Sotto il rumore incessante degli scatti dei fotografi, Juncker, con Tusk alla sua destra e la premier lettone Laimdota Straujuma all’altro fianco, vide arrivare il premier ungherese Viktor Orbán. Guardò Straujuma, le disse «ecco, sta arrivando il dittatore», con tono così bonario che la prima ministra in tutta risposta sollevò le spalle e non trattenne una risata. E poi mentre Orbán avanzava verso di lui, Juncker lo accolse con un: «Dittatore!»; lo salutò così, con una vigorosa stretta di mano, e con una mezza sberla in faccia. Orbán stordito dal gesto mantenne un sorriso stampato in faccia, e durante la foto di gruppo, con Juncker che lo spintonava verso Tusk, continuò a sorridere, mentre tutti ridacchiavano. Fu così che un presidente di una istituzione europea diede del dittatore a un capo di governo di uno stato membro dell’Unione europea. Altro che Turchia: l’Ungheria era in Europa. Fu una vera e propria sberla.

Eppure l’affronto rimase simbolico o poco più. Fece il giro del mondo e dei social, ma il buffetto in faccia e le risate fecero pensare più a una gag amichevole, e inoltre l’inclinazione di Juncker per il buon vino portò molti a concludere semplicemente che «ecco, è di nuovo ubriaco». Nei fatti, cosa fece Juncker per prendere - politicamente - a sberle il dittatore?

Frenemies

All’epoca, Orbán aveva già mostrato le sue derive autoritarie, che dal 2010 non hanno fatto altro che intensificarsi. Pure Bruxelles non ha potuto ignorarle, e così dalla legge sui media del 2010 fino alle mosse anti-immigrazione di quel 2015, le querelle non sono mancate. Ma come dice lo storico Stefano Bottoni, che al premier ungherese ha dedicato un libro e un appellativo, non dittatore ma “Un despota in Europa”, per il premier ungherese Juncker era «nella sostanza innocuo, un interlocutore gioviale con cui si poteva fare affari».

Non è che la sberla e l’umiliazione siano passate indifferenti. Nel 2019 Orbán arriva a piazzare la faccia di Juncker assieme a quella di George Soros nei suoi manifesti-attacchi; entrambi venivano presi di mira per un supposto “piano” per favorire l’immigrazione. La tattica era quella di utilizzare Bruxelles come scapegoat, come capro espiatorio. Ma anche in quel caso - secondo Bottoni - «se il premier si è permesso di ridicolizzare Juncker è proprio perché lo riteneva inoffensivo». Diverso era il caso «di altri politici coi quali Fidesz ha davvero chiuso, e cioè Tusk, Weber, e il ministro degli esteri lussemburghese Jean Asselborn». 

Nel gabinetto Juncker, operavano commissari come il tedesco Günther Oettinger che finito il mandato ha ricevuto un incarico proprio da Orbán; un caso di porte girevoli che abbiamo già raccontato. Da commissario Oettinger ha sempre sostenuto che ai tedeschi convenisse contribuire al bilancio europeo a favore di paesi dell’Europa dell’Est come l’Ungheria, dove sono dislocate molte manifatture tedesche, perché «questo meccanismo foraggia indirettamente le loro imprese». Nonostante gli screzi di forma, non è stato certo nell’era Juncker, anche lui nella famiglia politica popolare, che Fidesz ha dovuto lasciare il Ppe. All’epoca si tergiversava e a inizio 2019 si arrivò al massimo a una sospensione. 

Una parola non basta

Non è bastata una parola, “dittatore”, per suggellare un atteggiamento davvero intransigente dell’Unione europea nei confronti delle derive ungheresi. Anzi. Fino all’ultimo, non solo con Juncker ma pure con von der Leyen, la cui nomina Orbán ha sostenuto (perché Weber sarebbe stato un più duro oppositore per lui), si è cercata la strada del compromesso. Anche quando il Parlamento europeo ha insistito per condizionare i fondi europei al rispetto dello stato di diritto, e Ungheria e Polonia hanno messo il veto, la Germania ha comunque trovato una soluzione digeribile per il partner centrorientale. La interdipendenza asimmetrica, sul piano economico, tra Berlino e Budapest, ha plasmato la reale direzione della politica europea.

Così con la Turchia. Nel 2003 si intensificano i rapporti con l’Ue, non molto tempo dopo prende il via la procedura di adesione; Daniel Cohn-Bendit regala a Erdogan il primo euro turco. La chiave dell’intesa si basa sulla comune intenzione di limitare il potere dell’esercito sulla politica in Turchia, l’accoglienza dell’Europa è festosa, a Istanbul è periodo di investimenti in infrastrutture, di opere faraoniche. Le cose nel tempo cambiano; Nicolas Sarkozy nel 2009, quando la Francia vota per le europee, fa dell’allontanamento della Turchia dall’Ue un argomento di campagna elettorale. 

«Cooperare»

Ma tuttora l’Ue promette a Erdogan nuovi miliardi per trattenere nei suoi confini i rifugiati - e il governo italiano è d’accordo, purché «siano adeguatamente finanziate anche altre rotte migratorie». Si veda alla voce Libia. Inoltre, nonostante gli appelli della Grecia vista la situazione nel Mediterraneo orientale, paesi come Germania Francia e Italia hanno continuato a esportare armi verso Ankara. E tuttora, per quanto von der Leyen si sia ritrovata senza sedia e sul sofa, ha espresso parole per dialogo e cooperazione. 

Perciò bisogna leggere l’affermazione di Mario Draghi nella sua interezza. «La considerazione da fare è che con questi, diciamo, chiamiamoli per quel che sono, dittatori, di cui però si ha bisogno, per collaborare, perché poi… Uno deve essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute e deve essere anche pronto a cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese».

Draghi dice, sì, che Erdogan è un dittatore, ma anche che coi dittatori bisogna essere pronti a cooperare. 

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