«È evidente che oggi come oggi la mia figura politica non contribuisce a vincere. Quando ti hanno convertito in capro espiatorio e il tuo ruolo nel partito e per migliorare la democrazia nel tuo paese è molto limitato e mobilita il peggio di quelli che odiano la democrazia, vanno prese delle decisioni senza tentennamenti. Lascio tutti i miei incarichi nella politica, nel partito e nelle istituzioni, non mi convertirò in un ostacolo per bloccare il cambiamento»: così, con la dignità del riconoscimento di una sconfitta che è anche personale e l’orgoglio di avere guidato un appassionante ciclo politico e poter passare il testimone a una nuova leadership femminile, Pablo Iglesias annuncia il suo abbandono della politica.

Lo fa sul filo della mezzanotte del 4 maggio, quando ormai il trionfo della popolare Isabel Díaz Ayuso è certificato dallo scrutinio delle elezioni della Comunità di Madrid. Perché Ayuso ha vinto quasi ovunque, arrivando prima in tutti i distretti della capitale e in 177 di 179 municipi della Comunità, anche nella cintura rossa dei comuni del Sud, dove la sinistra è ancora maggioranza ma ha perso molta della sua forza. E ora la leader del Pp madrileno può governare con il sostegno di Vox: la campagna elettorale della sinistra, che quasi subito ha convertito il voto in una scelta tra democrazia o fascismo, ha mobilitato la parte dell’elettorato progressista più vicina ideologicamente, ma non ha impedito la vittoria dell’estrema destra e del trumpismo alla spagnola incarnato dal modello di libertà della neoeletta presidente.

Ayuso aveva convocato le elezioni della Comunità a marzo, per disfarsi dell’alleanza con Ciudadanos e riaffermare la propria alterità politica nei confronti dell’esecutivo del socialista Pedro Sánchez. La sua gestione della pandemia ha rappresentato nell’ultimo anno la vera opposizione al governo di coalizione progressista. La sinistra madrilena è stata attraversata negli ultimi anni da crisi continue e partiva indebolita nel confronto elettorale. Madrid è stata teatro del conflitto tra Iglesias e Íñigo Errejón, che uscì da Podemos per fondare Más Madrid. Podemos rischiava di non superare la barriera del 5 per cento per entrare in consiglio regionale, con il rischio di un contraccolpo sulla coalizione di governo. Iglesias decideva quindi di lasciare la vicepresidenza del governo spagnolo e candidarsi alle elezioni di Madrid come valore aggiunto nella battaglia della sinistra per la riconquista della Comunità. Ma ha vinto Ayuso, che ha pescato voti un po’ ovunque, da Ciudadanos, che è rimasto fuori dall’assemblea di Madrid, ai socialisti che hanno registrato il loro risultato peggiore nella Comunità; mentre Vox ha conservato e rafforzato il suo bacino elettorale. Alla sconfitta del Psoe, ha fatto da contrappeso la crescita di Más Madrid che, con lo stesso numero di seggi dei socialisti, li ha superati in voti. La presenza di Iglesias ha garantito l’entrata di Podemos nell’assemblea regionale ma con un limitato aumento di seggi, relegando la formazione viola all’ultimo posto in consiglio.

La resa

«Quando non si può essere più utili bisogna sapere ritirarsi», spiega Iglesias, ammettendo di non avere contribuito a ribaltare uno scenario che tutti i sondaggi pronosticavano, seppure non di queste dimensioni. E accettando di essere diventato il catalizzatore della politica di avversione e odio della destra tanto da divenire motivo per la sua mobilitazione e consolidamento.

Iglesias chiude così definitivamente il suo ciclo personale e politico in appena sette anni, forse in anticipo per quanto riguarda il ruolo di segretario generale di Podemos, ma in un processo che aveva già iniziato lo scorso mese di marzo lasciando il governo. Lo fa dopo avere raggiunto vertici di potere e di influenza su cui nessuno avrebbe scommesso al principio, nella consapevolezza di non essere più indispensabile al progetto politico del suo partito, anzi di potergli essere controproducente. Sapendo di avere portato Podemos al limite massimo del governo del paese e che c’è una nuova generazione pronta a succedergli nella leadership. D’altronde, Iglesias si è sempre dichiarato nella prima linea della politica a tempo determinato, lui che è professore di Scienze Politiche alla Complutense di Madrid, ama curare propri mezzi di informazione e nel frattempo si è costruito una nuova famiglia, con la sua compagna Irene Montero e i suoi tre figli.

Proprio alla Complutense di Madrid, assieme ad altri politologi della facoltà di Scienze Politiche, Iglesias fu tra i fondatori di Podemos nel 2014, diventandone segretario, il partito nato per tradurre in proposta politica le ambizioni del movimento degli Indignati di cui quest’anno ricorre il decimo anniversario. Nelle elezioni europee del 2014, Podemos conquistò cinque seggi all’europarlamento convertendosi nel quarto partito spagnolo. Nelle regionali e municipali del maggio 2015, Podemos e le sue cosiddette confluenze entrarono in varie Comunità Autonome e conquistarono il governo di diverse città, tra cui Barcellona e Madrid. Quelle elezioni costituirono il trampolino delle politiche del dicembre successivo, in cui Podemos entrò per la prima volta nel Congresso con 69 deputati. La mozione di sfiducia di Sánchez contro il popolare Mariano Rajoy iniziò quel processo di costruzione di un governo di coalizione progressista tra Psoe e Unidas Podemos, sostenuto da una maggioranza di partiti progressisti e indipendentisti, che si concretizzò all’inizio del 2020.

«Sono orgoglioso di avere guidato un progetto che ha cambiato la storia del nostro paese», diceva ieri sera Iglesias. Perché Podemos, sotto la sua guida, ha scompaginato il quadro politico spagnolo facendo venir meno il bipartitismo storico. Anche Ciudadanos, comparso quasi contemporaneamente alla formazione viola in alternativa a questa nel campo del centro-destra, contribuì alla fine del bipartitismo. Sette anni dopo, però, Ciudadanos, invenzione delle élite, è un partito finito. Per Podemos invece si apre una nuova fase senza più il suo fondatore e segretario, perché il suo progetto possa continuare a vivere.

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