Ben Rhodes, ex viceconsigliere per la sicurezza nazionale, speechwriter e personaggio decisivo nel concepire, confezionare e vendere all’opinione pubblica la politica estera di Barack Obama, ha scritto su Foreign Affairs uno dei saggi più interessanti e bizzarri a proposito del ritiro delle truppe dall’Afghanistan ma più in generale sulla lettura della fase storica che stiamo vivendo.

Si tratta di un saggio interessante perché l’autore ha vissuto dall’interno i laceranti dibattiti sul ruolo dell’America nel mondo negli anni del presidente che era stato eletto non solo per la sua sognante rappresentazione simbolico-narrativa, ma anche perché aveva promesso di chiudere l’era della “guerra al terrore” di George W. Bush, proposito che è terminato con le truppe ancora sul campo, il carcere speciale di Guantanamo attivo e funzionante, una gigantesca campagna di attacchi con i droni anche in paesi che non erano in stato di guerra e l’espansione del raggio di azione delle forze speciali americane, che in quegli anni sono intervenute in 138 paesi.

L’autore ammette che il “suo” presidente non ha mantenuto del tutto le promesse: «È chiaro che l’amministrazione Obama, che i critici accusavano di eccessivo disimpegno, in realtà ha commesso errori nella direzione opposta, sostenendo aspetti del progetto post 11 settembre».

C’è anche un’interessante dimensione biografica. Rhodes, newyorchese dell’Upper East Side che voleva fare lo scrittore, ha deciso di dedicarsi alla politica dopo l’11 settembre 2001 e ha lavorato nello staff dell’ex deputato Lee Hamilton alla stesura del report dell’Iraq Study Group e alle raccomandazioni alla commissione d’inchiesta sull’11 settembre.

Questione esistenziale

Nell’articolo su Foreign Affairs, Rhodes elenca tutti gli errori, gli effetti collaterali e le derive impreviste impresse da una strategia globale di contrasto al terrorismo che si è imposta negli anni di Bush non solo come risposta a un attacco senza precedenti, ma come questione esistenziale che ha plasmato mentalità, atteggiamenti, orientamenti politici e modi di vita di una generazione e oltre di americani.

Rhodes sostiene che è arrivato finalmente il momento per passare dalla fase securitaria, militarista e antagonista del post 11 settembre a una fase di ripensamento e ricollocazione americana nell'orizzonte post-post-11 settembre, e Joe Biden, già decisivo nella vicenda obamiana, è l’uomo giusto per condurre il passaggio epocale, al netto della disastrosa esecuzione del ritiro delle truppe dall’Afghanistan.

L’ex consigliere sostiene che Biden e il Congresso a tenue maggioranza democratica non devono solo far virare quello che Obama ha definito il “transatlantico” della sicurezza americana, gigante difficile da dirottare una volta messo in moto, ma devono «ridisegnarlo», assegnando nuovi criteri, priorità e modalità d'intervento. Fin qui è tutto chiaro e chiaramente in linea con quello che l’autore ha ripetuto fino allo sfinimento in articoli e libri negli ultimi tempi.

Le contraddizioni 

Poi subentra la dimensione bizzarra del ragionamento. Rhodes sostiene che gli attacchi alle Torri gemelle e al Pentagono hanno generato una certa mentalità aggressivo-imperialistica che si è nutrita di una dicotomia noi-contro-loro e in base a quella ha plasmato una concezione del mondo che ha pervaso tutto, dalla sicurezza negli aeroporti all’islamofobia come sentimento irriflesso e socialmente accettabile.

È importante mettere l’accento sul fatto che, per Rhodes, questo tipo di mentalità non esisteva o non era rilevante prima dell’11 settembre, ma è figlia di quell’evento. Il che costituisce il primo elemento fragile di una tesi che non tiene conto praticamente di tutta la storia dell’eccezionalismo americano, del suo antico impulso civilizzatore globale e delle strategie di mantenimento dello status di superpotenza, tutti elementi che erano ben presenti nell’ethos americano molto prima dell’attacco.

Ma la tesi diventa ancora più bizzarra quando Rhodes, abbandonando il prontuario concettuale della politica e attingendo a quello della psicanalisi, sostiene che questa mentalità è diventata la lente attraverso cui spiegare qualunque fenomeno americano, inclusi il nazionalpopulismo di Trump, il suprematismo bianco e l’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Ecco un passaggio decisivo del suo ragionamento: «Dopo l’11 settembre, l’apparato politico e mediatico noi-contro-loro della destra ha alimentato la rabbia contro gli americani che non erano impegnati a sufficienza nella guerra al terrore e ha ingigantito la minaccia di un “altro” islamico. Ma con la regressione dalla memoria degli attacchi dell’11 settembre e la presa di coscienza che non si sarebbero materializzate grandi vittorie in Iraq e Afghanistan, la natura di questo “altro” è cambiata. Lo spauracchio del terrorismo e le teorie del complotto sulla “sharia strisciante” si sono trasformate in paure sugli immigrati al confine meridionale, rabbia verso gli atleti che si inginocchiano durante l’inno per protestare contro le violenze della polizia e teorie del complotto su qualunque cosa da Bengasi ai brogli elettorali. Spesso questa dinamica ha preso di mira le minoranze. Paradossalmente, questo riorientamento delle correnti xenofobe della politica post 11 settembre ha finito per alimentare il terrorismo invece di contrastarlo».

Un enorme transfert

La dimensione bizzarra della tesi di Rhodes è dunque questa semplificazione estrema: tutto ciò che di male attraversa la società americana è da attribuire al mindset da guerra al terrore che ieri si applicava ai musulmani, oggi agli immigrati e alle minoranze e domani chissà.

Sarebbe un prodotto di quella mentalità anche Trump, che pure nel suo farneticare predicava con qualche coerenza un nazionalismo in stile America First, ha fatto imbufalire i neoconservatori che avevano curato concettualmente la guerra al terrore e ha fatto inorridire lo stesso Bush, un internazionalista insofferente a quei conservatori che un tempo in America si distinguevano per il prefisso “paleo”. 

Poi Trump ha razzolato negoziando con i Talebani nel nome di un ritiro delle truppe che aveva promesso, galvanizzando una base tutta ripiegata su questioni, fantasie e complotti di tenore domestico. Per Rhodes tutto questo è stato un enorme transfert, una recrudescenza della sindrome post traumatica dell’11 settembre applicata a nuove circostanze.

Qual è, in conclusione, la proposta dell’autore per superare finalmente la fase post 11 settembre, liberando il paese dalla malattia che lo attanaglia? «Rimpiazzare la guerra al terrore con un progetto generazionale migliore. Gli americani devono essere guidati da ciò per cui sono a favore, non da ciò a cui si oppongono», scrive.

Qui il saggio di Rhodes si chiude, ma ci si potrebbe chiedere quali sono, al momento, le narrazioni non inquinate dalla mentalità post 11 settembre, giudicata responsabile di ogni male, che propongono una visione positiva ed equilibrata degli Stati Uniti e del loro ruolo nel mondo.

Quelle più accreditate nel dibattito e influenti in particolare presso le giovani generazioni fanno leva su una rilettura dell’esperimento americano come “slavocrazia” che ha prodotto iniquità, soprusi, violenze non per difetto o accidente, ma come svolgimento naturale e inevitabile di premesse malvagie, propagando in tutti gli strati istituzionali e della vita sociale razzismi e discriminazioni che vengono appunto definite “sistemiche”.

Il 1619 project del New York Times, che riporta la data fondativa ideale degli Stati Uniti all’anno dello sbarco della prima nave carica di schiavi sulle coste della Virginia, è solo l’esempio più noto di questa impostazione del problema. Nulla che lasci intravedere una rifondazione a partire da ciò a cui gli americani «sono a favore», come scrive Rhodes; si tratta piuttosto di un’ermeneutica che tende ad affermare che gli americani, per essere autenticamente tali, devono odiare sé stessi e tutto ciò che rappresentano. È di questo materiale la pietra angolare su cui Rhodes intende fondare l’èra post-post-11 settembre iniziata ufficiosamente con la caduta di Kabul?

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