Nell’immaginario collettivo l’“11 settembre” è quello degli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono del 2001, il cui impatto sugli equilibri internazionali è stato peraltro ridimensionato nel corso degli anni successivi dagli storici. Nondimeno, essi possono essere considerati uno spartiacque tra i secoli XX e XXI.

L’eccezionalità dell’evento nella storia statunitense e mondiale, la copertura mediatica, i quasi tremila morti e circa il doppio dei feriti hanno offuscato un altro “11 settembre” che ha fatto storia poco meno di trent’anni prima.

Sì, perché sino al primo anno del nuovo millennio, questa data era associata ad una tragedia che interessò sempre un paese del continente americano, situato però nell’estremità inferiore dell’America meridionale, il Cile.

E che causò un numero più o meno analogo di perdite umane, con l’aggravante, dolorosa e spaventosa, di una quantità ben maggiore di torturati (oltre trentamila secondo dati ufficiali) e di esiliati, nonché profondi e, ovviamente, mai del tutto superati traumi personali e familiari.

Il golpe orchestrato dai militari con la complicità dei civili che, nel 1973, rovesciò il presidente Salvador Allende ebbe un impatto circoscritto soprattutto alla regione latinoamericana e, in parte, all’Europa. Nondimeno esso va inserito in una cornice globale, per le tante connessioni che prima, durante e dopo intrecciarono i destini degli attori istituzionali e non di questo paese andino con quelli di varie nazioni del mondo.

Le vicende del Cile degli anni Settanta rientrano, infatti, a pieno titolo nella storia mondiale, perché la vita politica locale fu condizionata dai cambiamenti registratisi innanzitutto sullo scacchiere subcontinentale e, in secondo luogo, dagli effetti collaterali prodotti nelle cosiddette aree periferiche dalla contrapposizione, in epoca di Guerra fredda, tra le due superpotenze, Stati Uniti ed Unione Sovietica.

Nel quadrante regionale, si pensi all’ascesa al potere a Cuba, nel 1959, di un piccolo gruppo di ribelli mediante il ricorso alla guerra di guerriglia. E, di lì a un paio di anni, alla dichiarazione di Fidel Castro in merito al carattere socialista della rivoluzione cubana e ai forti legami che si instaurarono tra l’isola caraibica e Mosca e gli altri paesi dell’Europa dell’Est.

Oppure, si consideri l’esplosione del fenomeno guerrigliero degli anni Sessanta e inizio dei Settanta, dapprima sulla base del modello e della teoria del foquismo enunciata da Ernesto “Che” Guevara nei paesi centroamericani e andini, in Colombia e Venezuela, e poi sotto le spoglie di guerriglie di tipo “urbano” nelle nazioni del Cono Sud, Argentina, Brasile, Uruguay e, nemmeno a dirlo, in Cile.

Peraltro, i movimenti attivi in questi ultimi paesi rappresentarono un esempio da replicare per alcune organizzazioni terroristiche europee (come i Tupamaros uruguaiani per le Brigate Rosse) e furono in prima linea nella creazione e nel consolidamento di un network informale delle sinistre estreme tra le due sponde dell’Atlantico, con contatti e ramificazioni, come dimostrano studi recenti, anche in varie nazioni che si affacciano sul Mediterraneo.

Nuova dottrina

La rivoluzione cubana ebbe un impatto decisivo sulla regione, modificando la strategia di sicurezza statunitense nell'area e, allo stesso tempo, favorendo la diffusione fra le Forze Armate latinoamericane di una nuova dottrina, quella della "sicurezza nazionale", che rivendicava un intervento diretto dei militari alla guida dei rispettivi paesi per difenderli dalla minaccia della sovversione.

Ciò che successe in Cile e nelle nazioni vicine, si deve, difatti, alla ferma volontà dei militari di scatenare una guerra antisovversiva tesa ad annientare fisicamente il “nemico” e a difendere la civiltà cristiana occidentale sotto attacco, politicamente e culturalmente, del comunismo mondiale. Tale dottrina e, specialmente, il profondo convincimento degli uomini in divisa di avere una missione da compiere, cioè estirpare il “cancro marxista” e rifondare i rispettivi paesi, giustificarono ogni tipo di nefandezza ai danni di civili inermi, dagli arresti arbitrari alle incarcerazioni in centri di detenzione segreti, dal ricorso sistematico alla tortura alle sparizioni e agli omicidi. I militari cileni non si fermarono però a questo e, in maniera razionale, pianificata e con risultati di gran lunga superiori e duraturi rispetto a quelli conseguiti dai loro pari grado brasiliani, uruguaiani o argentini, attuarono un contro-rivoluzione che riorganizzò ogni aspetto del sistema economico-sociale, politico-istituzionale e culturale, edificando una “nuova” società ad uso e consumo della destra politica ed economica nazionale.

Sulla storia cilena di quegli anni pesarono, quindi, come macigni pure le logiche bipolari della Guerra fredda che impedirono agli Stati Uniti di accettare che, dopo Cuba e poco meno di un quindicennio, un altro paese latinoamericano potesse uscire dalla sua sfera di influenza ed entrare nell’orbita sovietica. E per giunta attraverso l’approdo al socialismo per via pacifica, esperimento ben più dirompente di quello della lotta armata promosso su scala regionale e planetaria dall’Avana.

Tanto è vero che il presidente statunitense Richard Nixon e il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger, contribuirono in maniera determinante all'avvento dei militari in Cile, per scongiurare che l’esempio di Allende e di Unidad Popular potesse essere replicato altrove nel subcontinente e, cosa ben più importante, che potesse produrre un effetto domino in uno scacchiere enormemente più critico come quello europeo, in primo luogo in paesi come la Francia e, soprattutto, l’Italia dove erano presenti i partiti comunisti più forti dell’Europa occidentale. Gli esiti delle indagini della commissione Church del Senato statunitense (1975) e la declassificazione dei documenti delle varie agenzie governative statunitensi, iniziate con l’amministrazione di Bill Clinton e proseguite sino ad oggi, dimostrano inequivocabilmente il coinvolgimento degli Stati Uniti, sebbene la rottura istituzionale in Cile sia dipesa in misura non meno importante dalle dinamiche interne al paese.

Le connessioni

Perciò, il colpo di stato in Cile ebbe quantomeno una proiezione transatlantica. Le sue onde concentriche si propagarono dapprima ai paesi vicini, in alcuni dei quali i militari erano già al potere (il Brasile dal 1964 e l’Uruguay sempre dal 1973) o lo sarebbero stati di lì a poco (Argentina dal 1976).

Non a caso, i vertici di queste quattro dittature, più quelle di Bolivia e Paraguay, con la collaborazione di Fbi e Cia, avrebbero lanciato l’operazione clandestina nota come Operación Cóndor tesa a eliminare i dissidenti all’estero. Dall’America Latina le onde si spinsero anche a Est, giungendo alle nazioni del vecchio continente, dove, in special modo in Italia, ravvivarono le fiamme delle tensioni politiche e sociali già attive da alcuni anni, arrivando a condizionare la linea politica del Pci.

Come un fiume in piena che con veemenza rompe gli argini, il golpe cileno avrebbe scalato molte posizioni nella classifica delle crisi e degli eventi internazionali che si verificarono nel corso del 1973. Al punto tale che, in breve tempo, divenne rappresentativo delle fratture e cesure registratesi nella politica mondiale quell’anno, al pari di altre vicende che sino ad oggi hanno comprensibilmente meritato una risonanza maggiore. I riferimenti sono tanti, dalla Guerra di ottobre alla prima crisi petrolifera, dagli accordi di Pace di Parigi sul Vietnam al terrorismo legato alla questione palestinese. Non si può individuare una relazione diretta tra il colpo di Stato in Cile e gli avvenimenti appena menzionati.

Ciò nonostante, non sfugge alla lente dell’osservatore, solo per fare due esempi, il nesso tra la prima e, soprattutto, la seconda crisi petrolifera e l’esplosione del debito estero che investì il Cile e tutta la regione latinoamericana negli anni Ottanta, non a caso etichettato come “decennio perduto”. O la collaborazione, sino a poco fa sconosciuta, prevalentemente in ambito militare e dell’intelligence, instauratisi dalla metà dei Settanta tra Israele e i regimi militari latinoamericani, con in prima fila quello cileno.

Se i Settanta furono un decennio di crisi sistemica, il 1973 fu uno dei suoi momenti più paradigmatici e al golpe cileno spetta un posto di assoluto rilievo. Fu solo un caso che proprio quell’anno, nel mese di marzo, i Pink Floyd pubblicassero uno dei loro album più celebri, The Dark Side of the Moon. Tuttavia, il titolo fu in un certo senso premonitore e ben si addice alla dittatura sanguinaria di Augusto Pinochet.

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