L’11 settembre di cinquant’anni fa, un colpo di stato compiuto in Cile dalle Forze Armate e dai Carabineros rovesciò il governo di Salvador Allende. Fu il primo presidente marxista nella storia a giungere al potere per via democratica.

Il leader socialista si suicidava nel palazzo presidenziale e la coalizione di partiti di sinistra, Unidad popular (Up), veniva sopraffatta dalla violenza e dalla feroce repressione scatenata sin dall’alba di quel fatidico giorno. Perché in quello che era considerato sino ad allora uno dei paesi più democratici dell’America latina i militari presero il potere?

A tale domanda si può tentare di rispondere solo facendo un salto nel passato. Passato che potrebbe, inoltre, consentirci di gettare luce sul presente per tentare di comprendere il significato del quinto decennale del golpe nel Cile di oggi; nazione tornata nuovamente e prepotentemente sotto i riflettori dei media internazionali con la vittoria, nelle elezioni presidenziali del 2021, del leader della sinistra studentesca e movimentista Gabriel Boric.

Perché a ridestare l’attenzione su un evento così lontano nel tempo, nel paese andino e al di fuori dei suoi confini nazionali, non è solo il tornante del mezzo secolo.

Questa ricorrenza cade, infatti, in una congiuntura critica della vita politica ed economica-sociale cilena, in una stagione altamente mutevole e caratterizzata, in appena un anno e mezzo, da una lunga sequela di vicende per molti versi sconcertanti.

Alcune di esse sono in grado, potenzialmente, finanche di riportare indietro le lancette dell’orologio della storia, a un passato che dall’estallido social (proteste sociali) dell’ottobre del 2019 molti ritenevano che si potesse definitivamente mettere in soffitta.

La storia

Prima, però, è opportuno soffermarsi stringatamente sui fatti del passato che dovrebbero essere noti a chi ha vissuto negli anni Settanta e Ottanta, ma non a coloro i quali, a malapena, conoscono quell’altro 11 settembre accaduto circa vent’anni fa.

L’utopia di una via pacifica e riformista al socialismo iniziò con la vittoria di Allende alle elezioni presidenziali del 1970. Il suo esecutivo avrebbe dovuto portare il paese verso una società socialista attraverso la progressiva trasformazione della sua struttura economica, dell’ordinamento politico e delle sue istituzioni e, soprattutto, mediante la riappropriazione delle principali risorse nazionali, da tempo nelle mani delle multinazionali straniere.

Questo originale percorso di trasformazione si scontrò, però, con la reazione di tutte quelle forze, interne ed esterne alla nazione, che non lo volevano.

Fughe di capitali all’estero, imprese lasciate in stato di abbandono dai proprietari, ripetuti scioperi delle organizzazioni del ceto medio, scomparsa dei generi di prima necessità, si accompagnarono all’ostruzionismo permanente delle opposizioni, democristiani e destra, ad una massiccia campagna di propaganda condotta dai principali organi stampa e alle violenze delle formazioni dell’estrema destra, che alimentarono caos e instabilità.

Al sabotaggio interno si andò ad aggiungere quello internazionale, ovvero degli Stati Uniti di Richard Nixon e di Henry Kissinger, che, preoccupati dalle ripercussioni nell’area degli eventi cileni e dalla possibilità che l’esempio del Cile di Allende potesse essere seguito in Europa occidentale, ostacolarono con tutti i mezzi il governo di Up, boicottando il paese sul piano economico, isolandolo diplomaticamente e sostenendo le opposizioni e i media nazionali.

Dittatura spietata

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In tale contesto da “guerra interna” i vertici delle Forze Armate si convinsero a prendere il potere, forti anche di un’ideologia, quella della “sicurezza nazionale”, che rivendicava un intervento diretto dell’istituzione militare a difesa della nazione dal “nemico interno” della sovversione.

Con il loro intervento gli uomini in divisa mettevano fine all’esperimento della “via cilena al socialismo” e alla lunga tradizione democratica del Cile, inaugurando una spietata dittatura che, in 17 anni, avrebbe lasciato sul terreno migliaia di morti e desaparecidos, e che avrebbe radicalmente modificato il volto del paese anche sul piano economico, sociale e politico.

Quindi, è da qui, dall’eredità autoritaria, che bisogna partire per capire l’importanza del quinto anniversario del colpo di stato, riprendendo il discorso su quegli accadimenti accennati al principio che autorizzano a considerare tale ricorrenza come “atipica”.

E in controtendenza rispetto alle commemorazioni del 2003, quando il capo di stato, il socialista Ricardo Lagos, simbolicamente aprì l’ingresso del palazzo presidenziale dal quale uscì la salma di Allende, e del 2013, anno in cui il presidente di destra liberale e liberista Sebastián Piñera ammise che ci furono “complici passivi” della dittatura.

Sinistra in affanno

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L’elenco dei fatti accaduti in meno di due anni è lungo. Se ne possono individuare alcuni. In primo luogo, il fallimento del processo costituente con il quale si sarebbe dovuto sostituire la Costituzione del 1980 voluta dal dittatore Augusto Pinochet.

La netta bocciatura, nel referendum del settembre dell’anno scorso, della proposta di una nuova Carta elaborata dall’Assemblea Costituzionale, nella quale erano in maggioranza la sinistra radicale e i movimenti civici, ha significato, infatti, una pesante sconfitta per l’attuale esecutivo. Ad appena sei mesi dall’insediamento di Boric, è emersa tutta l’inesperienza della generazione di politici della quale fa parte il presidente.

Il governo ne è uscito palesemente indebolito. Da lì in poi è stato un susseguirsi di passi falsi e di esitazioni. A complicare la situazione, è intervenuta pure una indagine per un presunto caso di corruzione riguardante esponenti di primo piano della maggioranza, tra cui l’altro leader delle proteste studentesche, Giorgio Jackson, costretto a lasciare l’incarico di ministro dello Sviluppo sociale. E a poco sono serviti i rimpasti ministeriali o il coinvolgimento di personalità dei vecchi partiti del centro-sinistra, al potere ininterrottamente per i primi vent’anni dal ritorno alla democrazia.

Pertanto, dal suo insediamento nel marzo del 2022, Boric e la sua maggioranza sono vistosamente arretrati, mentre l’estrema destra ha notevolmente guadagnato consenso ed oggi, come mai negli ultimi trent’anni, è in grado di condizionare il dibattito politico. Non a caso, alle elezioni del Consiglio Costituzionale, che dovrebbe redigere un nuovo testo costituzionale, il Partito repubblicano di estrema destra ha ottenuto quasi la maggioranza dei seggi (22 su 50).

Maggioranza che le conferisce un notevole potere di indirizzo e di veto nella stesura della futura legge fondamentale. Destra che, peraltro, emulando forze analoghe sparse nella regione e nel mondo, sta soffiando forte sul clima di insicurezza percepito dai cileni e dovuto all’aumento vertiginoso della criminalità e della violenza, e sui fenomeni connessi al repentino incremento dell’immigrazione.

Per non parlare del peggioramento della gran parte degli indicatori economici e sociali, nel paese che sino a qualche anno fa era considerato la “tigre latinoamericana”, pur con tassi tra i più alti al mondo di disuguaglianze socioeconomiche.

Il governo Boric non ha saputo sinora reagire all’offensiva dei partiti di opposizione, né è stato in grado di offrire soluzioni credibili ai diversi temi caldi dell’agenda politica ed economico-sociale.

Riscrivere la storia

Ma ciò che risulta ancor più sorprendente è il fatto che le opposizioni sono riuscite addirittura a sottrarre all’esecutivo il controllo della narrazione sull’anniversario dell’11 settembre. Di concerto con i grandi mezzi di informazione, storicamente con una linea editoriale conservatrice, hanno obbligato a discutere degli anni che precedettero il golpe, anziché di quelli della dittatura e, quindi, delle responsabilità di Allende e di Up in luogo di quelle dei militari golpisti e dei loro complici civili. Manipolando la storia, le destre hanno puntato l’indice sulle vittime, cui spetterebbe il compito di fornire giustificazioni, anziché sui carnefici.

Un bel passo indietro rispetto all’ammissione di Piñera del 2013. I partiti di opposizione sono riusciti finanche a leggere alla Camera dei deputati la risoluzione del 22 agosto 1973, nella quale si accusava il governo Allende di «grave violazione dell’ordine giuridico costituzionale della Repubblica».

Quest’attacco deve essere considerato una reazione della destra politica ed economica al ridimensionamento dei propri privilegi e interessi, come mai nei precedenti 30 anni e dai tempi di Allende, gridato a gran voce nelle settimane delle proteste sociali del 2019. Ridimensionamento implicito nel progetto costituzionale poi fallito.

Dinanzi a tale offensiva, il governo è risultato spesso inerme e, quanto alla ricorrenza dell’11 settembre, ha saputo opporre solo una commissione presidenziale interministeriale incaricata di coordinare le attività e di fornire una narrazione comune e condivisa.

Tuttavia, di iniziative concrete se ne sono viste poche e la voce dell’esecutivo è risultata esile e roca. E dire che Boric e gli altri esponenti della sua generazione adesso al potere si sono sempre richiamati ad Allende e agli anni di Up. Senza una chiara strategia politica e azioni concrete, il solo ricorso a una sorta di operazione nostalgia non è, però, sinora bastato.

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