Il quotidiano Times of Israel parla di «incontro ufficiale», ma in Libia nessuno ne era a conoscenza. I media israeliani hanno rivelato uno “storico” bilaterale avvenuto a Roma una settimana fa tra la ministra degli Esteri libica, Najla Mangoush, e l’omologo israeliano Eli Cohen. I due ministri avrebbero discusso dei rapporti fra i due stati, di progetti di cooperazione nel campo dell’agricoltura, di aiuti umanitari e di protezione dei siti ebraici presenti nel paese nordafricano. Tutto falso, secondo la versione della ministra degli Esteri libico che ha parlato di un «incontro casuale in cui non si è parlato di niente di tutto questo».

Le proteste sono scoppiate a Tripoli nella tarda serata del 27 agosto. I manifestanti hanno raggiunto prima la sede del ministero degli Esteri, poi hanno assaltato la residenza del primo ministro Abdelhamid Dbeibeh e quella del suo consigliere per la politica estera. Immediata la reazione del primo ministro che non ci ha pensato due vol-te a scaricare tutta la responsabilità su Mangoush, sospendendola e deferendola ad una commissione di inchiesta. Il bilaterale sarebbe avvenuto con la facilitazione dal ministero degli Esteri italiano, circostanza che non è stata confermata dal portavoce del ministro Antonio Tajani.

Eppure Cohen lo ha apertamente ringraziato della sua ospitalità in quel comunicato ufficiale che gli è valsa la “scomunica” da parte del governo di Benjamin Netanyahu e l’ira degli americani, artefici dell’incontro che sarebbe dovuto rimanere segreto. Mentre l’ormai ex ministra Mangoush è già al sicuro in Turchia, i dubbi rimangono. Sembra strano, infatti, che Dbeibeh non sapesse dove fosse e cosa facesse un ministro del suo governo. Sembra strano che proprio Mangoush sia volata a Roma per incontrare di nascosto il ministro degli Esteri di uno stato che ancora per Tripoli ufficialmente è nemico.

Ora, però, si mette male anche per Dbeibeh. Chi, fino a poco tempo fa, proteggeva il primo ministro, gli si potrebbe rivoltare contro. «Ciò che ha fatto il ministro degli Esteri Najla Mangoush incontrando il suo omologo israeliano è un atto vergognoso». Non le manda a dire Muhammad Bahrun, capo di una delle milizie della città di Al Zawiya, in un post condiviso su Facebook, e prosegue lanciando un messaggio sibillino a Dbeibeh: «Non staremo zitti dopo questa azione e non ci fermeremo finché non vedremo questa persona sciocca (Mangoush, ndr) essere ritenuta responsabile di questo at-to vergognoso». Detto, fatto. La poltrona di Mangoush è saltata, ma per Dbeibeh i guai non finiscono qui.

Il messaggio di Bahrun e il licenziamento del ministro degli Esteri dimostrano ancora una volta quanto sia precario il potere di Dbeibeh e quanto dipenda dagli umori delle milizie. Lo stesso Bahrun, che all’epoca era stato appena nominato al vertice dell'ufficio antiterrorismo della regione occidentale - nonostante fosse accusato proprio di terrorismo dal procuratore generale-, svolse un ruolo decisivo nel proteggere Dbeibeh da Bashagha quando quest’ultimo tentò di marciare su Tripoli il 27 agosto 2022. Ma ora, il miliziano, commentando su Facebook l'incontro "segreto", ha lasciato intendere che non c'è più margine di trattativa con Dbeibeh: o fa quello che dicono loro «o non ci fermeremo». A influire su questo cambio di posizione può essere stata la decisione del suo licenziamento che il capo dell'intelligence libica Hussein al Aayeb, già responsabile in prima per-sona della sua nomina, ha preso a giugno di quest’anno. Ai miliziani, dunque, non basta più avere la propria fetta di rendita petrolife-ra. Vogliono potere, prestigio e considerazione.

E infatti, ogni volta che un accordo politico appare all’orizzonte in Libia, i gruppi armati si affrettano a chiarire chi ha più potere sul campo fra loro. Il sequestro del comandante della brigata 444, Mahmoud Hamza- rapito il 14 agosto e rilasciato il 17 dopo un accordo con la forza Al Radaa- e le minacce da parte dei miliziani seguite alla notizia dell’incontro segreto tra Mangoush e Cohen, sembrano il frutto di questa dinamica disfunzionale che si verifica in un momento apparentemente cruciale nella politica libica.

Lo slancio verso nuove elezioni, infatti, sembra essere stato rinvigorito dalla proposta di creare un nuovo governo di unità nazionale, avanzata dal comitato 6+6 che riunisce una delegazione di membri dei due rami parlamentari- la Camera di Tobruk e l’Alto Consiglio di Stato a Tripoli- e che ha il compito di negoziare la roadmap elettorale. Il nuovo esecutivo andrebbe a sostituire quello esistente presieduto da Dbeibeh, il quale ovviamente non ci sta e le tenta tutte pur di rimanere al suo posto. L’ultima in ordine cronologico è stata la nomina di Muhammad Takala, uomo fidato di Dbeibeh, come nuovo presidente dell’Alto Consiglio di Stato- spodestando così Khaled El Mesri, a capo del “senato” tripolino dal 2018.

Il comitato 6+6 ha vincolato la sua roadmap elettorale alla nomina di un nuovo governo, ma con l’avvento di Takala, la collaborazione dell’Alto Consiglio di Stato alla realizzazione delle elezioni potrebbe venire meno. Se Takala, infatti, toglierà il suo sostegno al piano elettorale o non si impegnerà a risolvere le questioni procedurali in sospeso, la Libia tornerà allo stato di paralisi tutto a vantaggio di Dbeibeh. Ma a quel punto, per il premier libico sarà solo una vittoria di Pirro perchè qualcuno busserà nuovamente alla sua porta per riscuotere la ricompensa.

 

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