Dal funerale di Mahsa Amini centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in oltre 80 città dell’Iran, capeggiate dalle donne che si tagliano ciocche di capelli in segno di protesta. Almeno 130 attivisti sono stati uccisi finora negli scontri con la polizia e il regime ne ha arrestati oltre 1.500. 

La dimensione crescente delle proteste – che presto hanno generato importanti iniziative di solidarietà all’estero – dovrebbe far tremare la teocrazia di Teheran, ma in realtà, come ha notato anche il New York Times, negli ultimi anni le manifestazioni di massa hanno progressivamente perso la capacità di mettere in crisi i regimi autoritari. 

Un progetto di ricerca dell’università di Harvard che monitora le manifestazioni popolari dagli anni Trenta del secolo scorso dice che le mobilitazioni anti autoritarie non sono mai state così ampie e partecipate, e allo stesso tempo non sono mai state così inefficaci nel rovesciare gli autocrati o nel persuadere elementi del regime a unirsi all’opposizione.

Non significa che singole iniziative di resistenza popolare non possano avere successo. Nello Sri Lanka, ad esempio, le rivolte di un gruppo eterogeneo della società civile hanno fatto capitolare il governo, ritenuto responsabile della disastrosa situazione economica del paese.

I dati però indicano che un esito del genere è sempre più raro, e infatti sollevazioni popolari significative ad Haiti, in Indonesia, a Hong Kong, in Russia e Cina non hanno minimamente scalfito il potere. 

La svolta negativa

È una tendenza nota agli studiosi della resistenza di piazza. Erica Chenoweth, la politologa che coordina lo studio di Harvard, ha sostenuto con entusiasmo la capacità dei movimenti dal basso di avere impatti apprezzabili sui governi, ma verso la fine degli anni Zero le cose sono drasticamente cambiate. 

Secondo i dati di Harvard, nel corso del Ventesimo secolo le proteste hanno accresciuto la loro capacità di generare cambiamenti nei sistemi politici, fino a toccare l’apice dell’efficacia all’inizio del millennio, quando statisticamente due sollevazioni su tre ottenevano almeno alcuni dei principali risultati che si prefissavano.

Nel decennio successivo le proteste sono cresciute in tutto il mondo per numero, partecipazione e intensità, ma la loro capacità di incidere è «crollata drammaticamente», arrivando a dimezzarsi. L’inverno che ha congelato le primavere arabe è l’eredità più nota di quella stagione di speranze frustrate.

Le osservazioni condotte a partire dal 2020 illustrano una ulteriore sterilizzazione del fenomeno: soltanto una sollevazione popolare su sei produce un effetto politico rilevante. L’entusiasmo della rivolta iraniana si scontra con la fredda realtà della serie storica.

Le cause

Ci sono diverse ipotesi sulle cause di questa tendenza. Una riguarda gli «adattamenti della repressione dei governi autoritari su queste campagne», ha scritto Chenoweth, notando che all’accresciuta capacità di mobilitazione dei manifestanti attraverso i social media e qualunque altro strumento digitale corrisponde una ben più potente abilità dei governi di reprimere, oscurare, manomettere o usare a proprio vantaggio le reti che veicolano le proteste.

Una delle verità indigeste per chi ha creduto nell’inevitabilità dell’effetto democratizzante del mondo digitale è che anche gli autocrati hanno accesso a internet. Mentre i manifestanti democratici organizzavano sit-in su Twitter, i regimi costruivano fabbriche di troll e finanziavano cybereserciti.

Ci sono anche altre ipotesi che si affiancano a questa. La sociologa turca Zeynep Tufecki da anni osserva che nell’era digitale le proteste hanno prodotto molte adesioni ma pochi cambiamenti. Una delle ragioni è, paradossalmente, proprio la quantità di mezzi a disposizione di chi mobilita e organizza. 

I mezzi digitali hanno reso semplice fare quello che fino a qualche decennio fa richiedeva mesi di lavoro, organizzazioni strutturate e leader capaci di coagulare e rappresentare le istanze di manifestanti che dovevano essere faticosamente raggiunti, convinti, mobilitati e infine radunati.

Paradossi della mobilitazione

Il risultato, secondo Tufecki, è che oggi le adunate di piazza, per quanto ampie e partecipate, sono punti di partenza, non l’esito maturo di iniziative politiche coltivate nel tempo.

Assomigliano più «al rifiuto di Rosa Parks di cedere il suo posto sull’autobus che alla marcia su Washington del 1963», evento che ha richiesto al popolo di Martin Luther King nove mesi di lavoro per portare al Lincoln Memorial 250mila persone, una minima frazione di quelli portati in piazza da altre iniziative recenti assai meno gravide di conseguenze.

Il movimento di Occupy Wall Street ha mobilitato decine milioni di americani, le proteste per l’omicidio di George Floyd hanno mosso l’intero paese e la Marcia delle donne dopo l’insediamento di Donald Trump ha portato nelle piazze americane circa l’1,5 per cento della popolazione in un solo giorno.  

Ma Wall Street è andata avanti come se nulla fosse, i fondi alla polizia non sono stati tagliati e Trump è ancora il dominatore del Partito repubblicano e un candidato non trascurabile alle elezioni del 2024.

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