Lo scorso 11 giugno al Palazzo Cartagine di Tunisi i leader europei, in primis la premier Giorgia Meloni, annunciavano con soddisfazione la futura firma di un Memorandum of understanding che avrebbe messo fine alle partenze verso l’Italia e al collasso economico del paese nord africano.

A due mesi esatti da quella visita lampo, conclusa tra strette di mano e sorrisi, il presidente tunisino Kais Saied ha intascato i soldi promessi da Bruxelles (150 milioni di euro per sostenere nell’immediato le casse pubbliche più 105 milioni come supporto al controllo delle frontiere) ma il flusso migratorio verso l’Italia ha iniziato a scorrere più velocemente.

Luglio di partenze

«Il blocco navale lo stiamo facendo con l’accordo con la Tunisia», diceva il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a metà luglio. Dichiarazioni che non trovano riscontro nella realtà. Soltanto lo scorso mese sono partiti dal paese nordafricano oltre 23mila persone, principalmente da città come Sfax, Mahdia e Zarzis. Numeri record se si considera la media degli ultimi anni e che da gennaio a oggi ne sono partiti oltre 93 mila.

Un aumento delle partenze che per questioni anche statistiche ha fatto diventare il Mediterraneo un enorme cimitero in questa torrida estate. Secondo le stime al ribasso dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, sono oltre duemila i migranti morti o dispersi dall’inizio dell’anno. L’aumento dei decessi è dovuto a diversi fattori tra cui anche la minore presenza delle navi delle Ong in mare, rallentate dai diktat burocratici del decreto Piantedosi.

Il memorandum siglato a luglio prevedeva, tra le altre cose, di fornire alla guardia costiera tunisina 17 motovedette rimesse in efficienza con nuovi equipaggiamenti, più altre otto nuove di zecca. Le imbarcazione sono indispensabili per le intercettazioni e i soccorsi in mare al largo delle coste tunisine. Il paese non ha però un’area Sar (di ricerca e soccorso in mare) di sua competenza, a differenza della vicina Libia.

Risultati prevedibili

Roma e Bruxelles avevano presentato il Memorandum of understanding come un grande risultato. Un modello da replicare anche con altri stati che avrebbe ottenuto risultati importanti sia per lo sviluppo economico del paese sia per la lotta all’immigrazione irregolare.

L’unico risultato ottenuto, invece, è stato quello di dotare il ministero dell’Interno tunisino (uno dei pochi organi non riformati dalla caduta del regime del presidente Ben Ali nel 2011) con nuove attrezzature, impiegate anche nelle violazioni dei diritti umani. Come evidenziato dall’inchiesta “The Big Wall” – pubblicata da Irpimedia in collaborazione con Actionaid – dal 2011 al 2022 l’Italia ha fornito alla Tunisia più di 47 milioni di euro.

Soldi che hanno permesso alle forze di sicurezza tunisine di ottenere nuove motovedette, pick up, droni e altra attrezzatura per il controllo delle frontiere. All’Italia ha permesso di poter effettuare i rimpatri da Palermo verso l’aeroporto di Tabarka vicino Tunisi. Ma in tema di espulsioni i numeri sono bassi. Nel 2020 e 2021 sono stati rimpatriati 3.794 tunisini a fronte di 28.554 arrivi. Meno del 13,5 per cento.

Guerra di frontiera

L’aumento delle partenze è dovuto a una situazione economica sempre più disastrata in cui si trova il paese. Ma se prima a partire erano principalmente i giovani tunisini ora, invece, sono anche i migranti subsahariani (sono circa 20mila nel paese) che dopo la deriva xenofoba del presidente Saied si ritrovano a prendere due scelte: tornare nei rispettivi paesi di origine o partire. E gran parte di loro ha deciso di salpare verso l’Italia dopo essere stati buttati fuori di casa o licenziati dai posti di lavoro. A testimoniarlo è anche l’ultimo naufragio avvenuto nei giorni scorsi a largo delle coste siciliane, dove è affondato un barchino partito da Sfax. Secondo i sopravvissuti, provenienti da Costa d’Avorio e Guinea, sono più di 40 le vittime e i dispersi.

Ai morti in mare, quest’estate, si sommano quelli nel deserto. Nelle scorse settimane le autorità tunisine hanno prelevato da città come Sfax centinaia di migranti subsahariani, abbandonati poi in mezzo al deserto senza cibo e acqua lungo i confini con Libia e Algeria.

Una situazione che ha causato tensioni tra Tunisi e Tripoli dopo che i libici si sono visi arrivare dal confine ovest del paese centinaia di persone a cui fornire assistenza umanitaria. Dopo le accuse del premier del governo di unità nazionale libico, Abdel Hamid Dbeibe, ieri i due paesi confinanti hanno annunciato di aver trovato un accordo per le 300 persone rimaste bloccate nel deserto.

«Abbiamo concordato di condividere la gestione dei migranti al confine», ha detto un portavoce del ministero dell’Interno tunisino. La Libia ne prenderà in carico la metà, gli altri saranno trasferiti in centri di accoglienza di Tatouine e Medenine. Nel limbo dell’attesa.

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